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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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sabato 18 gennaio 2014

Vangelo e cultura - miei appunti del 1981 sul tema, da lezioni tenunte dal prof.don Giovanni Ferretti a "settimana" della FUCI a Camaldoli

 Nei momenti di svolta, come è quello che stiamo vivendo, è importante cercare di riepilogare, per prendere lo slancio per azioni nuove, lo "stato della questione" nel campo in  cui si vuole operare. Poiché si avverte l'esigenza di costruire una nuova cultura a sfondo religioso per orientare la nostra azione di persone di fede nel mondo contemporaneo, ripropongo i miei appunti che, a ventiquattro anni, presi a Camaldoli, partecipando a una delle "settimane" della FUCI - Federazione Universitaria Cattolica Italiana durante lezioni sul tema "Vangelo e Cultura" tenute del teologo e filosofo prof. don Giovanni Ferretti.
 I miei appunti riflettono la mia capacità di comprensione dell'epoca e anche di quella attuale. Non sono né teologo né filosofo. Mi guadagno da vivere come pratico del diritto. Sono uno di quelli che il nostro antico assistente fucino definiva simpaticamente "ignoranti colti".
 
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 Miei appunti sul ciclo di lezioni su “Vangelo e Cultura” tenuto per la FUCI da don Giovanni Ferretti a Camaldoli dal 26-7-1981 al 1-8-1981 (pres. Tonini-Vietina)
 
1.Divisione - mediazione
 1.1.La divisione tra Chiesa e società
Il relatore ha dichiarato di non voler trattare il tema astrattamente e atemporalmente, ma storicamente e considerando i due termini -vangelo e cultura- sia nella loro autonoma consistenza che nel loro reciproco rimando.
 In Mancini-Ruggeri, Fede e cultura, pag. 61 si afferma che non vi è un contrasto tra fede e ragione, ma deve rilevarsi una divisione storicamente consumata tra Chiesa e società, soprattutto tra la Chiesa dell’Occidente e la società strutturata sui rapporti di produzione industriale. Da questa divisione sorge un disagio. Ci si domanda: “la fede ha un significato per la vita o è una realtà marginale (come un hobby, irrilevante per la vita sociale)?”.   
1.2 Capire il senso della divisione tra Chiesa e società e interrogarsi sulla sua radice. Un rimedio: la mediazione
 Bisogna capire in profondità il senso della divisione e interrogarsi sulla sua radice. Come sostengono Mancini e Ruggeri nell’opera citata la divisione non è necessaria di principio, come non è necessaria l’identificazione. Il Cristo rifiutato non desidera la separazione, la divisione non è legge della Chiesa.
 L’età costantiniana accolse Cristo, ma la croce divenne strumento di vittoria contro il nemico e quindi di divisione  con gli altri (si considerino la lotta tra latini e greci, le crociate contro l’Islam, le lotte tra cattolici e protestanti).
 Vi è stata un’incapacità della fede cristiana di proporsi come punto di riferimento culturale. D’altra parte ha perso il carattere di religione naturale, praticabile a prescindere dalla ragione.
 Vi è stata difficoltà ad accettare lo spirito scientifico (che stava per diventare il cemento della nuova società): Galileo, Eldorado  di Voltaire, Utopia  di Moro sono situati fuori del mondo cristiano.
 Solo la ragione autonoma / legge a sé stessa è stata ritenuta in grado di sostituire la religione nella funzione di fondare la vita civile.
 D’altra parte, se Cristo è Signore universale, in cui tutto deve essere ricapitolato per la salvezza, bisogna liberare la fede dal compito di dividere una unità culturale dalle altre e l’autonomia della ragione non può essere ritenuto criterio ultimo della fede.
 Il problema è il seguente: “Come prendere atto di questa divisione (come osservato da Maritain: la storia non torna indietro) senza rinunziare alla pretesa universale della fede?” Bisogna collocarsi creativamente nella situazione venutasi a creare. Bisogna evitare sia la cattura ideologica, sia l’estraneità insignificante, mantenere l’autonomia della cultura senza elevare la cultura ad idolo autosufficiente.
 E’ possibile pensare a una mediazione tra i due termini “fede e cultura”?
 Il termine “mediazione” può essere ambiguo e va chiarito. Infatti possono concepirsi operazioni di mediazione in cui o la fede colonizza la cultura o è la fede che si fa colonizzare.
1.2.1.Vicoli ciechi della mediazione-la sintesi dialettica degli opposti
Nel pensiero dialettico due realtà opposte vengono superate in una dimensione superiore che le contiene entrambe. Operando in questo senso, la fede verrebbe a costituire un elemento necessario della cultura, cioè un elemento della cultura: si otterrebbe una riduzione della fede a cultura, a scapito dell’alterità irriducibile della fede.
1.2.2.Vicoli ciechi della mediazione-sincretismo
Nel sincretismo gli elementi eterogenei si mediano in un quid tertium. Secondo questo metodo, occorrerebbe provocare l’incontro tra due culture, e quindi bisognerebbe prima ridurre l’eterogeneità ad omogeneità, nel caso di specie intendendo “fede” come “cultura della fede” per poter poi mediare le due culture sincreticamente; anche in questo caso si avrebbe una riduzione della fede a cultura.
1.2.3.Vicoli ciechi della mediazione-compromesso
Il compromesso deve essere considerato una forma degenerata di sincretismo. Si cerca una mediazione individuando un terreno comune. Tuttavia la fede è per sua natura radicale e mal si presta al compromesso.
1.2.4.Vicoli ciechi della mediazione-adeguamento rinunciatario
Vi può essere un adeguamento rinunciatario dell’uno o dell’altro termine. O si produce una culturalizzazione del cristianesimo  o una teocrazia, ottenendo poi in realtà o la fine della fede o la fine della cultura o di tutte e due.
1.2.5.Vicoli ciechi della mediazione-l’uso strumentale vicendevole.
Vi è una cultura della crisi, apologeticamente usata per far prevalere la fede e una cultura sacrale che viene usata con funzione legittimante-
2.Mediazione - confronto - dialogo - incarnazione
 Occorre cercare una mediazione tra fede e cultura che operi creativamente un confronto tra i due termini salvaguardando la reciproca autonomia, in modo che nessun territorio sia preda dell’altro. Ma è sufficiente?
 Secondo Ruggeri il cristiano offre come dono la compagnia della fede. Ma è possibile un’autonomia che non si sporchi le mani, una fede che si sottragga del tutto al lavoro culturale?
 E’ necessario rendersi conto che la mediazione è possibile, ma che sorgono diversi problemi. Bisogna chiarire fin dove debba spingersi il metodo del dialogo e fin dove il concetto di mediazione sia implicato in quello di incarnazione.
3.Chiarire i termini da mediare-compiti della teologia contemporanea
3.1.Vangelo
Indicando come uno degli elementi da mediare  come il  Vangelo  e non come fede si vuole significare la volontà di ritorno all’essenziale, originario, autentico da annunciare e da vivere nella nuova situazione (per non contrabbandare merce falsa o sottoprodotti).
 Bisogna chiedersi se la società moderna ha rifiutato il Vangelo o una Chiesa che annunciava per Vangelo ciò che Vangelo non era o era una incarnazione del Vangelo legata a una cultura ormai tramontata. Il distacco è frutto di cattiva volontà degli uomini (sia intesi sia come annunciatori che come ascoltatori) o frutto di una crisi della cultura in cui il Vangelo si era inculturato?
 Se si vuole fare vivere il Vangelo nell’oggi della cultura, occorre, prima di operare la mediazione culturale, riscoprire l’essenziale del Vangelo. E’ però impossibile una ricerca ingenua, come se si potesse scoprire un Vangelo non ancora mediato, inculturato.
3.2.Cultura
Bisogna considerare la cultura dei nostri giorni nella sua consapevolezza critica, intesa come presa di coscienza di ciò che si è. La cultura dei nostri giorni non è solo un insieme di idee teoriche astratte,ma un insieme di modi storici di vivere, esprimersi pensare, in senso sociologico globale.
La cultura dei nostri giorni presenta le seguenti caratteristiche:
a)autonomia, intessa come autonomia dalla fede;
b)criticità, sia rispetto all’autorità che alle altrui opinioni, anzi con la pubblica opinione;
c)immanenza: si presenta come un progetto mondano di liberazione o promozione umano e non riconosce come cultura ciò che evade da questo progetto;
d)totalità: costituisce insieme un progetto radicale e totalizzante che, pur rivolto alla storia, contempla la totalità dell’uomo, del futuro dell’uomo, e nello stesso tempo critico di una criticità rigorosa e capace di una effettiva prassi di lotta.
 I rischi di una siffatta cultura sono che:
a)l’autonomia secolare si evolva in secolarismo;
b)l’immanenza si evolva nella creazione di un idolo alternativo.
 Vi sono due questioni aperte, in merito al tema:
a)anche le culture cosiddette “deboli” corrispondono a questo modello?
b)qual è oggi il vero “patner” del discorso della fede con la cultura? L’intellettuale o l’uomo povero.
3.3.Compiti della teologia contemporanea
 Ad un primo livello di comprensione la teologia può essere intesa come scienza di Dio non raggiunta solo con le nostre forze intellettuali, che ha fonte nella Rivelazione e che concerne verità che possiamo cogliere solo nella fede. La teologia è indispensabile  per la fede in ogni sua fase, infatti non è possibile riflettere senza var coscienza di ciò che si fa: la consapevolezza è un inizio di teologia.
 Ad un secondo livello di comprensione la teologia viene intesa come scienza vera e propria della fede, con un suo metodo e con la possibilità di varie costruzioni concettuali che variano ampiamente.
  La teologia contemporanea sta mutando da teologia del Magistero a teologia della Rivelazione.
 Per la teologia del Magistero o teologia dogmatica la fede è un insieme di dogmi, vale a dire di verità rivelate da Dio e a noi insegnate dal magistero dei papi e dei vescovi. Lo scopo di questa teologia e di fondare le verità insegnate dal magistero (produce manuali di teologia formulati a temi del Magistero e prove delle tesi e conseguenze per la vita).
 A questa metodologia si può obiettare che gli interventi del Magistero sono limitati ad alcuni argomenti ben circoscritti e spesso sono determinati da intenti polemici verso alcuni errori. La Rivelazione ha un contenuto molto più ampi degli interventi definitori del Magistero, contenuto che deve essere accessibile dalle fonti e che deve essere mediato perché parli ancora all’uomo, facendo un un’opera archeologica, ma di attualizzazione per proporlo al nostro tempo. Questo significa anche scoprire le mediazioni che hanno originato le stesse fonti e  capire che la storia e necessaria per interpretare le fonti.
 Il merito della teologia contemporanea è stato di rendere la teologia più vicina alla concreta vita di fede che inizia e spesso si mantiene come fede ingenua, cioè tradizionalmente ricevuta. Dalla teologia contemporanea partono provocazioni culturali che:
a)rendono consapevoli che non è possibile mantenere quella fede tradizionale ricevuta se non a prezzo di una divisione tra fede e vita;
b)invitano a verificare la fede sulle fonti (per chiedersi “a che cosa è legata la mia fede?”, a tutte le concezioni  mitiche di supporto, ad una certa ascesi o ad altro?).
 Il problema della teologia contemporanea è di riscoprire il Vangelo”  e, poiché il Vangelo puro non esiste più, di fornirne una attualizzazione vitale, inventando un modo per esprimere oggi quel Vangelo. La teologia si fa quindi luogo di mediazione tra fede e storia perché la fede possa sopravvivere. La teologia contemporanea ha fatto di ciò il suo metodo e il suo statuto.
4.Teologia liberale e teologia dialettica.
4.1.Rispondere alle esigenze dei tempi
 La teologia liberale e la teologia dialettica sono accomunate dall’intento di rispondere alle esigenze dei tempi (inteso come adeguamento alla filosofia delle scienze) e costituiscono tendenze di pensiero sempre riaffioranti.
 In campo cattolico il “modernismo” può essere considerato una espressione della  teologia liberale.
 La filosofia dialettica (Karl Barth) si presenta come una reazione alla teologia liberale.
 Le sfide con le quali queste concezioni teologiche intendevano confrontarsi erano quelle poste dalla sintesi idealista, dall’evoluzionismo positivistico, dalle scienze storico critiche, dal liberalismo politico economico.
4.1.1.La sintesi idealista
La sintesi idealista aveva posto in questione il rapporto tra trascendenza  e immanenza, criticando il concetto di trascendenza di Dio e proponendo una concezione forte della immanenza di Dio nell’uomo; quindi non una pura e semplice negazione della trascendenza, ma la sottolineatura di una realtà presente nella tradizione.
4.1.2.L’evoluzionismo positivistico (Comte)
 Nella concezione dell’evoluzionismo positivistico la religione si presentava come un momento superabile e superato della concezione del mondo.
4.1.3Le scienze storico-critiche
Si volevano applicate anche ai Vangeli (oltre che a fonti laiche, come ad es. i testi omerici) le concezioni delle scienze storico critiche, evidenziando all’interno della Scrittura una evoluzione analoga a quella che si riscontrava nel magistero e proponendo il cristianesimo come fenomeno storico.
4.1.4Il liberalismo politico economico
Il liberalismo politico economico fondava la sua concezione di democrazia sulla base della negazione dell’autorità, anche di quella rivelata.
4.2.Soluzioni della teologia liberale
 Sulla scia di Hegel e del neokantismo nella teologia liberale la religione cristiana costituisce il completamento e l’unificazione delle dimensioni culturali  dell’uomo.
 In Hegel la religione cristiana viene considerata religione assoluta perché è la religione dello spirito, che si trova nell’uomo. Tuttavia secondo Hegel anche la filosofia ha lo stesso oggetto, sia pure procedendo per concetti e non per rappresentazioni, e quindi la religione avrebbe lo stesso contenuto della filosofia. In Italia il filosofo Gentile concepì, in quest’ottica, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari come mezzo per portare la filosofia ai discenti sotto rappresentazioni mitiche.
 Secondo il teologo  Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher ( 1768-1834) , la religione non sarebbe un insieme di verità concettuali, né un insieme di norme etiche, ma un atto di intuizione del sentimento dell’unità di infinito e finito (uno dei motivi del romanticismo).
 Nella teologia liberale si utilizzano le scienze storico critiche per distinguere un nucleo originario della predicazione di Gesù dai successivi sviluppi dottrinali ed ecclesiali: questa essenza costituirebbe il coronamento della cultura. Il sacro viene concepito come culmine convergente delle categorie del vero, del bello e del buono. Gesù viene ritenuto un maestro di una forma più genuina della religiosità dell’uomo.
 Espressione di questa tendenza è l’opera del teologo Adolf von Harnack (1851-1930) L’essenza del cristianesimo, un ciclo di lezioni universitarie tenute nel 1900 ad allievi di tutte le facoltà. L’autore in quest’opera procede solo in modo storico critico e non in modo dogmaticoapologetico. Va quindi alla ricerca di un nucleo originario duraturo che permane nelle varie forme transitorie che il cristianesimo ha assunto, di una essenza da scoprire all’interno del Vangelo stesso, una sorta di evangelo dell’evangelo. Anche il Vangelo si presenta come legato al tempo, ma conterrebbe forme sempre valide sotto le quelle caduche, storiche, mutevoli. Questo nucleo originario duraturo viene individuato nella predicazione di Dio come Padre (“Dio è padre”). Poiché contiene questo nucleo originario duraturo il cristianesimo non sarebbe una religione positiva come le altre, sarebbe la religione per essenza. Il Regno di Dio è visto come realtà interiore (religione dell’anima  e del suo Dio). Per quanto riguarda i problemi della cristologia, non è necessario credere nella umanità-divinità di Cristo, ma basta guardare solo a ciò che Cristo ha detto. Il centro non è Cristo, il figlio, ma soltanto il Padre. Cristo è la via che porta al Padre, è un maestro di religiosità, è la forza personificata dell’intimità con Dio, per questo le sue parole rimangono.  Quanto alla questione delle due nature di Cristo in una sola persona, essa sarebbe frutto dell’intellettualismo greco. L’evangelo non è una dottrina teoretica, ma è dottrina in quanto insegna Dio come Padre. In questa concezione l’etica è scissa dal culto esteriore, è incentrata sull’amore e non è possibile trarne programmi di azione sociale.
4.2.1.Valutazioni sulla teologia liberale
 C’è molto di positivo  e attuale nella teologia liberale, in particolare l’impegno profondo nel dialogo con la cultura e il ritorno al’esenziale (per evitare sacrifici inutili all’intelletto). Vi è anche un apprezzamento del mondo contro l’ascetismo (contro il quale si era scagliato Nietsche). Però l’esito di questa teologia è stato la perdita di elementi essenziali quali la cristologia, la croce. Costituì un adeguamento alla cultura del tempo, una sorta di religione borghese che proponeva una pace di resa col mondo. La religione veniva appoggiata solo in quanto appoggiava lo statu quo. Vi era un ottimismo circa le sorti della civiltà ottocentesca, che invece risultò travolta dalla catastrofe della prima guerra mondiale. E’ stato osservato che l’errore di questa concezione teologica è stato quello di concedere al mondo il diritto di assegnare a Cristo un posto nel mondo.
 Va ricordato che nel 1914  von Harnack firmò un appello di intellettuali tedeschi per l’entrata in guerra della Germania.
4.3.1.Karl Bart e la teologia dialettica
 Karl Barth fu un discepolo dei teologi liberali. Entrò in crisi dopo la sua esperienza pastorale (1909-1921) a contatto con i ceti operai ed a seguito dei problemi posti dalla “questione di classe”. Propone ancora un approccio culturale: concepisce il centro del messaggio cristiano nella predicazione della venuta del Regno di Dio, il che porta a non rifugiarsi nella vita interiore. Il Regno viene inteso come Signoria di Dio: vi è in merito una lunga riflessione del suo Commento all’epistola ai Romani di San Paolo. Barth è all’origine di una vera e propria rivoluzione teologica. Si pone il problema di come parlare all’uomo di Dio lasciando parlare Dio e Dio soltanto: un vero capovolgimento rispetto alla prospettiva della teologia liberale. Barth sente l’esigenza di lasciare Dio nella sua alterità radicale e non compie nessun tentativo per mediare filosofia e fede. Nella teologia di Barth è centrale l’escatologia come annuncio del Regno, non nel senso di auspicare una trasformazione politica, ma di annunciare la soppressione di questo mondo e l’instaurazione di un Regno che non è di questo mondo. Si proclama una differenza qualitativa tra Dio (inteso come Deus absconditus) e il mondo. In questa concezione la potenza di Dio è la crisi di tutte le forze,è il totalmente altro, inteso come contraddizione, il nuovo, l’inaudito, l’inatteso, l’evangelo assolutamente incondizionato. Di conseguenza si critica e si nega anche la religione, intesa come insieme di concetti, opere e riti che consentono di possedere Dio: in tal modo si produce un insopportabile idolo in cui l’uomo proietta sé stesso (cfr Feuerbach); il Dio della religione è un idolo.
 La teologia di Karl Barth è dialettica in quanto il “No” di Dio al mondo non significa condanna senza salvezza; dal radicale rifiuto scaturisce il “Si” di Dio, la sua accettazione dell’uomo. E’ infatti proprio del procedimento dialettico portare uno degli elementi all’estremo per vederlo convertitonel suo opposto.
  Nella teologia protestante c’era una doppia predestinazione (per la condanna e per la salvezza). In Barth la doppia predestinazione è contemporanea, poiché è nel mentre Dio condanna tutto l’umano che lo accetta. La fede non può essere che salto nel vuoto, non può avere alcun presupposto umano che deve essere adempiuto come preliminare alla fede, non vi nessuna gradazione, la fede è l’inizio. La fede è per tutti lo stesso salto nel vuoto, è per tutti possibile perché è per tutti impossibile.
 Per quanto riguarda il rapporto fede-cultura, nella concezione di Karl Barth la fede è il punto critico, non il coronamento, della cultura. La fede non fonda la cultura, ma la cultura, con la sua avversaria, l’incultura, viene messa in crisi nel modo più radicale. L’accusa più grave contro questa concezione teologica è quella di irrazionalismo (per altro non rifiutata da Barth) e di afasia, nel senso di mantenere il silenzio su Dio. In proposito va osservato che secondo Barth il compito della teologia è la Parola di Dio; egli fa le seguenti affermazioni:
a)come  teologi si deve parlare di Dio, non tuttavia come di colui che è la risposta ultima ai problemi umani, ma come colui che mette in crisi tutte le possibilità umane;
b)come uomini non possiamo parlare di Dio; per nessuna via è infatti possibile dire l’incarnazione, la Parola di Dio;
c)la teologia dogmatica ortodossa presenta delle verità (intese come concetti), non Dio nel suo farsi uomo;
d)la via mistica (percorsa da Barth all’inizio) dice solo la negatività dell’uomo;
e)utilizzando la leva dialettica si può raggiungere un equilibrio tra il “Si” della teologia dogmatica e il “No” della teologia mistica, senza la pretesa di esporre la verità di Dio, ma con la pretese di essere testimonianza di Dio.
f)dobbiamo essere coscienti di entrambe le condizioni (teologi/uomini) e proprio per questo rendere onore a Dio.
 Anche nell’ultima fase del pensiero di Barth non viene mutata la concezione che la Parola di Dio non è quella del teologo ma quella a cui il teologo rende testimonianza. La Parola di Dio è un avvenimento che non può essere catturato.
 4.3.2.Osservazioni sulla teologia dialettica di Karl Barth
 Nella teologia dialettica di Karl Barth vi è la vigorosa affermazione  della novità positiva del cristianesimo, l’affermazione dell’autonomia di Dio e della sua Parola. Vi è tuttavia il pericolo di cacciare il cristianesimo nel vicolo cieco dell’antiumanesimo e nell’irrazionalismo, cioè nel fideismo. Vi è infatti la possibilità di un fraintendimento: secondo il filosofo Bloch, il Dio di Barth è la personificazione del filone teocratico della Bibbia; l’uomo, nella concezione di Barth, sarebbe schiacciato dalla potenza di Dio e ciò che doveva essere annuncio salvifico viene colto da Bloch come la schiavizzazione dell’uomo perché il “No” di Dio all’uomo se detto da uomini non genera il “Si” di Dio all’uomo.
 La teologia dialettica ha la possibilità di un proseguimento fecondo. Vi è l’affermazione dell’assoluta centralità dell’azione divina, togliendo fondamento alla pretesa dell’uomo di divinizzare la storia, di sacralizzare la storia; questa teologia conduce alla comprensione della mondanità della storia. L’affermazione dell’alterità di fede e cultura può evitare una sacralizzazione del mondo che produca ostacoli alla comprensione del mondo. Rimane la questione se l’estraneità di Dio dal mondo, della fede dalla cultura, sia proprio l’ultima parola di Dio nel Vangelo.
 5.Le teologie di Paul Tillich (1886-1965) e di Rudolf Bultmann (1884-1976)
 Le teologie di Paul Tillich e di Rudolf Bultmann si confrontano con la filosofia della crisi, riprendono tematiche, ma non le soluzioni, della teologia liberale.
5.1.1.La teologia di Paul Tillich
  Per Tillich l’esperienza della guerra è una svolta epocale-culturale. Determina il tramonto dell’idealismo ottimistico e della teologia liberale. Dopo l’esperienza della guerra si apre un’epoca di crisi. L’uomo del 20° secolo non ha solo dietro di sé una storia di catastrofi, ma ha anche di fronte un destino di catastrofi: ha vissuto la colpevolezza in dimensioni mai raggiunte, dubita del proprio giudizio, sperimenta un abisso di assurdità.
 L’affermazione di Nietsche  “Dio è morto!” può assumere il significato di una liberazione dall’idealismo. Si  è in condizione di  dire Dio in modo nuovo. Occorre far emergere la potenza della fede nascosta in ciascuno di noi, contro l’abuso del nome di Dio. Tillich sostiene che occorre scoprire il senso sconvolgente di questo nome: Dio. Addirittura nelle sue opere non uso il termine stesso di “Dio”. Occorre dare una nuova espressione della dignità del messaggio cristiano, adatta ai nuovi tempi. Per far questo occorre esercitare il ministero della mediazione, inteso come opera di conciliazione  e di  pacificazione tra la fede e le esperienze mutevoli dei singoli e dei gruppi, e superare anche il conflitto tra teologia dialettica e teologia liberale. Occorre cercare ciò che divide e ciò che unisce, sulle frontiere tra passato e presente (tra i tempi), tra Vecchio e Nuovo Mondo, tra cultura e cristianesimo. Dopo la soluzione della teologia dialettica basata sulla separazione  e quella della teologia liberale basata sulla sintesi, bisogna usare il metodo della correlazione per stabilire una sintesi basata sulla relazione costante tra cristianesimo e cultura, tra domande esistenziali e risposte teologiche.
 Dio risponde agli interrogativi degli uomini (dell’esistenza umana). Bisogna partire dalla situazione umana da cui procedono gli interrogativi esistenziali e ricercare quali risposte la rivelazione può dare a questi interrogativi. La correlazione va intesa come interdipendenza di due fattori indipendenti. Domande e risposte sono indipendenti (vale a dire che non è possibile trarre le risposte dalle domande e non è possibile inserire la domanda nella risposta, perché la domanda ha una sua autonomia, indipendenza e originalità).
 Però ha torto Barth quando non vuole indagare sulla natura delle domande umane, rifiutando la teologia naturale e l’esame della situazione umana: si tratta di un autoinganno. Vi è infatti una reciproca dipendenza tra la domanda e la risposta, all’interno dell’impegno religioso. Infatti il senso della risposta è legato a ciò che ci riguarda in modo definitivo, che riguarda la questione dell’essere/non essere della salvezza/non salvezza. Analogamente, l’orizzonte religioso comprende anche la domanda. Il teologo non può dare una risposta convincente, se non partecipa con tutto il suo essere alla precarietà della domanda (non è solo un esperto della risposta di Dio). La sostanza della risposta è indipendente dal quella della domanda, ma non lo è dalla forma della domanda.
 La sostanza della risposta teologica è il Cristo. Ma è differente se si risponde al legalismo giudaico (allora il Cristo viene presentato come liberazione dalla legge), alla disperazione esistenziale dello scetticismo greco (allora il Cristo viene presentato come lògos, verità già nascosta e portata alla luce), o al nichilismo del 20° secolo ecc.
 L’elaborazione della domanda esistenziale spetta al filosofo. Tillich in merito utilizza la filosofia dell’esistenzialismo. Ma l’esistenza di risposte divine porta il teologo a discernere tra le domande esistenziali.
 Nell’opera Teologia sistematica Tillich propone 5 domande esistenziali e 5 risposte teologiche. Alla domanda concernente la ragione la teologia risponde con la rivelazione, a quella su essere/non essere risponde con Dio, a quella sull’esistenza risponde con  Cristo, a quella sull’esistenza risponde con lo Spirito, a quella sulla storia risponde con il Regno di Dio.
 Ad esempio la teologia pone in correlazione il tema essere/non essere e quello di Dio in quanto afferma che Dio è il fondamento dell’essere che resiste alla minaccia del nulla (è il fondamento del coraggio di esistere).
  Analogamente, pone in correlazione la storia (con il senso del cammino, della precarietà del futuro) con il Regno di Dio, affermando che  il Regno di Dio è il senso, il compimento, la realtà della storia.
 Tillich pensa di superare sia il soprannaturalismo (che intende Dio gerarchicamente sopra  il mondo - principio Zeusico) e il naturalismo (che identifica Dio con il mondo), proponendo una visione di Dio vicino al mondo ma altro dal mondo. Dio non si deve cercare fuori del mondo, ma neppure è  il mondo. Pensa di superare l’autonomia (intesa come dimenticanza del senso ultimo della vita e della cultura) e l’eteronomia (Dio si impone al mondo) e propone una teonomia, intesa come visione di Dio il quale domina l’essere dall’interno, come fondamento e senso ultimo.
5.1.2.Considerazioni sulla teologia di Paul Tillich.
  Nella teologia di Paul Tillich vi è il rischio di non salvare a sufficienza né l’autonomia di Dio né quella del mondo. In primo luogo può obiettarsi che la Rivelazione viene trovata ovunque nel mondo (Barth) e che non rispettando l’autonomia del mondo si causa il fallimento del tentativo di reinterpretare le domande esistenziali e il mondo non accetta queste reinterpretazioni (Bonhoeffer). Bonhoeffer critica Tillich, affermando che Tillich vuole dare come un tutore al mondo - il tutore/Dio -, ma  davanti alla possibilità che le ultime questioni possano essere risolte senza Dio si trova nella necessità di demolire l’apparente sicurezza del mondo, per cui fa vivere la religione sui fallimenti umani nei vari campi.
 Tuttavia il fascino della teologia di Tillich è di essere un tentativo di teologia della mediazione, con la preoccupazione amorosa e pastorale di trovare Dio nelle realtà del mondo e della vita come ultima e vera realtà. Pedagogicamente è una via utile perché afferma che bisogna calibrare le risposte. E’ una teologia legata all’esistenzialismo, che corre anche il pericolo  di cadere nell’intimismo.
5.2.1. La teologia di Rudolf Bultmann
 In Rudolf Bultmann il rapporto tra Vangelo e cultura è definito utilizzando il concetto di ermeneutica, intesa come teoria dell’interpretazione o studio dei presupposti generali del fatto interpretativo. In questa concezione la cultura è uno dei presupposti dell’interpretazione, operazione che permette di cogliere ciò che il Vangelo può dirci oggi.
 Bultmann, nell’occuparsi del rapporto tra Vangelo e cultura, propone due vie: quella della demitizzazione, intesa come ricerca del nucleo essenziale, e della interpretazione esistenziale.
5.2.1.1.La demitizzazione
 Bultmann propone il metodo di interpretazione della storia delle forme. Il testo del Vangelo viene concepito come risultato di una elaborazione e di una connessione organica di varie forme più originali che riportavano detti e fati interpretativi ambientati e adattati nelle primitive comunità cristiane. Occorre pertanto ripercorrere le storie di queste forme e compiere analisi filologiche per mettere in luce quale era l’autentico detto o fatto, in modo da chiarire il contesto e vedere l’intento interpretativo della comunità o dell’evangelista. L’interpretazione deve essere guidata anche da una intenzione teologica oltre che archeologica. Si deve arrivare a vedere quello che questi testi hanno dire a noi oggi, bisogna scoprire l’appello odierno del Nuovo Testamento, vale a dire che cosa è o non è la fede cristiana.
 Il primitivo messaggio cristiano ha subito già all’inizio, per funzioni descrittive, un rivestimento mitico. Ad esempio nella rappresentazione di  una suddivisione del mondo in tre strati: cielo, terra e inferno. O nella proposta di una visione  della storia dell’uomo sottoposta all’ingresso di potenze soprannaturali come angeli e demòni e votata ad una fine prossima. Il mito è ogni rappresentazione nella quale ciò che è divino viene presentato come mondano e umano. Nel mito gli interventi di Dio vengono presentati come qualcosa di constatabile. Allora, per rendere trasparente il significato più vero del Vangelo è necessaria una demitizzazione, intesa come ricerca del senso esistenziale. Poiché la nostra cultura non é più una cultura mitica, occorre liberarsi del mito inteso come rivestimento culturale.
 Nella prospettiva del mito, il mondo è aperto al mondo dell’aldilà e non solo il mondo naturale ma anche la vita personale sono sottoposti a potenze non mondane. Nella prospettiva delle scienze il mondo è chiuso all’intervento di potenze non mondane, ma aperto al pensiero scientifico; in questa concezione l’uomo si interpreta come unità e imputa a sé stesso le sue azioni. Il pensiero scientifico distrugge l’immagine del mondo come risulta dalla Bibbia.
5.2.1.2.L’interpretazione esistenziale
 L’interpretazione esistenziale suppone una precomprensione dell’esistenza. Per cogliere il senso dell’annuncio della Scrittura, occorre che si sia aperti al senso dell’esistenza, che si sia aperti alle cose di cui si tratta in quei testi.
 Bultmann utilizza l’esistenzialismo  del primo Heidegger  per descrivere l’esperienza che serve da precomprensione. In questa prospettiva si distingue una esistenza autentica da una esistenza inautentica.  L’esistenza autentica è aperta all’inoggettivabile, vive dell’invisibile; l’uomo è storicità (intesa come libertà, decisione, poter essere, ciò che non è tutto fatto); si può cogliere l’altro come io e si può fondare un rapporto interpersonale fondato sul’appello di novità che l’altro è. L’esistenza inautentica è quella in cui l’uomo si affida a ciò che è tangibile e visibile, di cui può disporre; l’uomo è ragione, nel senso che egli oggettivizza tutto ciò che conosce - tutto ciò che viene conosciuto diviene oggetto su cui si esercita il dominio, anche l’altro uomo. La filosofia tuttavia, secondo Bultmann, non può passre dall’esistenza inautentica all’esistenza autentica: solo l’evento salvezza verificatosi in Cristo consente questo passaggio.
 Secondo Bultmann l’appello liberante di Cristo non ci perviene per via storica (attraverso l’oggettività degli scritti evangelici): il Gesù della storia non salva (infatti non si può essere tutti esegeti e oltre tutto è irraggiungibile. Tale appello liberante ci perviene per il tramite di una conoscenza storico-esistenziale, come appello della predicazione attuale del chérigma alla vita presente, annuncio escatologico che però già nel Nuovo Testamento ha i tratti del mito. Ad esempio la resurrezione del Cristo non è un evento di questo mondo: trova nel Vangelo di Giovanni i tratti di un annuncio storico-esistenziale (non avviene adesso, non è un cambiamento fisico del mondo, è un atteggiamento esistenziale: l’evento escatologico).
5.2.2.Osservazioni sulla teologia di Rudolf Bultmann
 Rudolf Bultmann introduce in teologia il problema ermeneutico, la necessità di una mediazione culturale per interpretare il vero senso dell’annuncio biblico. E’ tuttavia discutibile il tema della precomprensione, soprattutto per essere così legato alla filosofia esistenzialista. Sono discutibili anche la negazione della possibilità di raggiungere la persona storica di Cristo e la concezione del mito. E’ positivo porre il problema della retta interpretazione e stabilire un nesso tra Vangelo  e cultura. Bultmann, come già Tillich, afferma la necessità di pensare il Vangelo con tutta la nostra cultura, non mischiando Vangelo e cultura né ponendo diaframmi tra noi e il Vengelo; egli intende la cultura come via per penetrare il Vangelo nella sua autenticità.
6.Jacques Maritain (1882-1973). L’umanesimo integrale
6.1. Presentazione di Umanesimo integrale
  Il relatore ha dichiarato di considerare, dell’opera di Jacques Maritain, solo Umanesimo integrale-problemi temporali e spirituali di una nuova cristianità del 1936 che contiene, come scrive lo stesso autore, “il testo di sei lezioni tenute nell’agosto del 1934 ai corsi estivi dell’Università di Santander”.
 Maritain ritiene che dopo la crisi modernista sia necessaria una nuova sintesi tra cristianesimo e umanesimo moderno, che comprenda anche temi politici come libertà, giustizia ecc. Questa nuova sintesi viene esposta in Umanesimo integrale che è un’opera filosofica e teologica ispirata alla filosofia di Tommaso d’Aquino; si propone una visione globale di temi filosofici e teologici e di temi concreti con indicazioni politiche. Questa nuova sintesi ha subito opposte critiche: di naturalismo da parte dei cattolici, di soprannaturalismo da parte dei laici.
 Lo schema dell’opera si muove intorno al concetto di uomo. Si esaminano la cristianità medievale e l’umanesimo moderno e si propone un ideale di nuova cristianità intesa come umanesimo integrale.  Si considera la posizione pratica dell’uomo davanti a Dio, il problema di che cosa sia l’uomo e la relazione tra Grazia e libertà. Considerando il rapporto tra il cristiano e il mondo si esamina l’ideale storico concreto della cristianità medievale e si propone l’ideale storico di una nuova cristianità.
 L’idea chiave dell’opera è il principio tomista dell’analogia, che si contrappone ad “univocità” ed “equivocità” e che afferma la possibilità che un termine o un’idea possano essere concretizzati in modi essenzialmente diversi pur conservando intatta la loro  formalità. In sostanza un principio può essere realizzato in modi diversi pur rimanendo intatto il suo riferimento al nucleo centrale. Per Maritain questo nucleo centrale è l’idea di cristianità intesa come cultura o civiltà cristiana, una  società animata da principi cristiani.
6.2. L’uomo nella visione della cristianità medievale
 Nella cristianità medievale l’uomo veniva concepito come persona, vale a dire come universo di natura spirituale avente libertà di scelta. In questa concezione l’uomo viene costituito dalla sua libertà come un tutto indipendente di fronte al mondo e di fronte a Dio.
 Tuttavia l’uomo è persona ma persona  ferita, infatti porta l’eredità del peccato originale, ha una natura ferita.
 La filosofia medievale sottolinea soprattutto la dimensione metafisica dell’uomo, ma non studia l’uomo per sé stesso ma nei dinamismi concreti della sua libertà. La concezione medievale del rapporto tra Grazia e libertà, tratta da Agostino, afferma la piena gratuità e sovranità della Grazia e l’effettiva libertà dell’uomo. Si coglie una certa inumanità teologica, infatti in epoca medievale viene sottolineata la natura decaduta dell’uomo e l’arbitrarietà dell’elezione divina. L’umanità viene vista come massa dannata e si esclude un effettivo dramma interiore. L’atteggiamento pratico consigliato all’uomo è di obliarsi in Dio: si guarda all’azione di Dio, si obliano sia l’azione umana, sia i costi dell’impegno umano.
6.3 L’umanesimo classico (post rinascimentale) evolve in un umanesimo disumano
 Dalla dissoluzione del medioevo emerge una civiltà profana che si separa dalla incarnazione, si passa dal culto del Dio fatto uomo al culto dell’umanità dell’uomo. La creatura viene riabilitata in senso antropocentrico.
  Scrive Maritain che  nel protestantesimo  questa riabilitazione appare travestita nel suo contrario e si mostra in una soluzione di disperazione. Vi è una dialettica tragica nella coscienza protestante; infatti in questa concezione la creatura non vale nulla per il cielo (pessimismo teologico) e tuttavia, attraverso la dottrina della predestinazione, della grazia senza libertà, si giunge ad un ottimismo temporale, ad un ottimismo per il mondo terreno. Scrive Maritain: “...il predestinato è sicuro della propria salvezza. Allora egli è pronto ad affrontare tutto quaggiù e a considerarsi come eletto da Dio sulla terra: le sue esigenze imperialistiche (per lui, uomo sostanzialmente macchiato ma salvato, sempre corrotto dal peccato ma eletto da Dio) saranno senza limiti; e la prosperità materiale gli apparirà come un dovere del proprio stato”. Maritain ricorda in nota la teoria di Max Weber (1864-1920)  sulle origini del capitalismo esposta nel saggio Sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo e considera assodato che il calvinismo (e la dottrina stessa di Calvino sul prestito a interesse) abbiano svolto nel capitalismo “una parte certa e importante”.
 Nel molinismo, sistema elaborato dal teologo gesuita spagnolo Louis De Molina (1536-1600) in cui si esclude la predeterminazione fisica della grazia, visto da Maritain come teologia umanistica mitigata, l’atto buono viene sdoppiato in una parte che deriva da Dio e una parte che deriva dall’uomo. La libertà umana disputa il terreno a Dio ed è quasi sullo stesso piano di quella di Dio. Nel molinismo si cerca di salvare la libertà umana a spese della causalità divina.
 Come reazione al molinismo si produce la teologia o metafisica  umanistica assoluta, la teologia del razionalismo, della libertà senza la Grazia, che Maritain individua, esemplificando,   nella filosofia di Rousseau. In questa prospettiva non vi sono più Grazia senza libertà o libertà e Grazia e libertà che si contendono il campo, ma solo la libertà, l’indipendenza. Il molinismo separava il piano della natura (autosufficiente - piano della ragione) dal piano della Grazia soprannaturale (della fede). Nell’umanesimo assoluto l’infinito è portato sul piano naturale (Hegel, Bloch). Per recuperare tutta la pienezza della prospettiva religiosa si passa dalla separazione dei piani all’assolutizzazione di un elemento, all’antroprocentrismo che si risolve in un umanesimo inumano. Infatti nella concezione dell’umanesimo si afferma il dominio dell’uomo sulla natura ma anche l’essere l’uomo dominato dalla  natura.
  Maritain afferma che “...al termine di una evoluzione storica secolare, ci troviamo in presenza di due posizioni pure: la posizione atea pura e la posizione cristiana pura. Nella seconda si possono distinguere due correnti di pensiero: la  teologia di Karl Barth e il tomismo.  Barth presenta al centro dell’uomo Dio, ma annullando l’uomo dinanzi a Dio, finisce per concepire un antiumanesimo primordiale. Il tomismo si presenta come integralista  (nel senso che tiene presenti sia l’uomo che Dio) e progressivo (cioè parte dal presupposto che la storia non torna indietro); intende salvare le verità umanistiche “sfigurate da quattro secoli di umanesimo antropocentrico mediante un rifacimento totale delle nostre strutture culturali, che significa passare a una nuova era di civiltà.
 Bisogna chiedersi se il trionfo della ragione strumentale sia un derivato dell’abbandono di Dio o se l’abbandono di Dio e l’affermazione della ragione strumentale siano gli esiti di uno stesso sviluppo di pensiero.
6.4. La nuova civiltà cristiana
6.4.1 Umanesimo integrale come umanesimo dell’Incarnazione
  In una nuova concezione di civiltà cristiana la creatura deve essere riabilitata in  Dio: la creatura non è un puro mezzo, ma è vero fine.
 Scrive Maritain: “in questo nuovo momento della storia della cultura cristiana, la creatura non sarebbe misconosciuta né annullata innanzi a Dio; non sarebbe neppure riabilitata senza Dio e contro Dio; sarebbe riabilitata in Dio. Non c’è più che uno scampo per la storia del mondo, dico in regime cristiano, checché ne sia del resto: ed è che la creatura sia veramente rispettata nei suoi legami con Dio e perché essa tiene tutto da lui; umanesimo, ma umanesimo teocentrico, radicato là ove l’uomo ha le sue radici, umanesimo integrale, umanesimo dell’Incarnazione”.
6.4.2.La distinzione tra spirituale e temporale
 In questa nuova prospettiva non c’è più antagonismo tra Grazia e libertà: la Grazia sostiene e attraversa la libertà, è sua causa prima. Occorre recuperare una coscienza di sé evangelica, elaborare un ideale storico di un nuova cristianità, attraverso uno sviluppo culturale in modo da favorire lo sbocciare di una vita propriamente umana, sul piano materiale, etico, religioso, artistico.
 Nel cristianesimo vi è la distinzione tra religione e cultura. La religione appartiene all’ordine del soprannaturale e trascende ogni civiltà e cultura: è universale. Scrive Maritain: “L’ordine della cultura o della civiltà appare dunque l’ordine delle cose delle cose del tempo, l’ordine temporale. Mentre che l’ordine della fede e dei doni della grazia, concernenti  una vita eterna che è una partecipazione alla stessa vita intima di Dio, costituisce al contrario un ordine  al quale conviene per eccellenza il nome di spirituale, e che trascende per sé l’ordine temporale”.
 Poiché la cultura deve rispettare la persona e i suoi fini, deve favorire l’effettivo raggiungimento dei veri fini della persona, quindi anche il fine dell’attuazione religiosa,  e subordinarsi a tali veri fini. Ne consegue che la persona non è subordinabile alla società, ma la società deve servire la persona. 
6.4.3.Il Regno di Dio
 La distinzione tra temporale e spirituale, essenzialmente cristiana pone diversi problemi nell’ordine teorico, il  più importante dei quali è quello del Regno di Dio. Vi sono tre errori: il primo è quello di ritenere il mondo come il regno di satana, il secondo è di concepire il mondo come attuazione del Regno (l’utopia teocratica), il terzo e di concepire il mondo come regno dell’uomo e della natura pura. Per il cristianesimo il mondo presenta una ambivalenza,  su di esso regna sia Dio che satana. Non bisogna accettare passivamente questa ambivalenza, ma analizzarla criticamente e sforzarsi di realizzare la verità storica del Vangelo, informando, transpenetrando e animando il temporale con lo spirituale.
 Scrive Maritain “Il mondo è bensì salvato, è liberato in speranza, è in marcia verso il Regno di Dio, ma non è santo, è la Chiesa ad essere santa; è in marcia verso il Regno di Dio ed  perciò tradimento verso questo regno non volere con tutte le forze una realizzazione -proporzionata alle condizioni della storia terrena, ma così effettiva quanto possibile, quantum potes tantum aude-  o, più esattamente, una rifrazione nel mondo delle esigenze evangeliche; tuttavia questa realizzazione, anche relativa, sarà sempre,  nel mondo, in un modo o in un altro, deficiente e contestata. E nello stesso tempo che la storia del mondo è in cammino (è la crescita del frumento)  verso il Regno di Dio, è anche in cammino (è la crescita dell’erba folle, inestricabilmente mescolata al frumento) verso il regno della riprovazione ... il cristiano deve sforzarsi tanto più di realizzare in questo mondo (in modo perfetto e assolto se si tratta della propria vita di persona; in modo relativo e secondo l’ideale concreto conveniente alle diverse età della storia, se si tratta del mondo stesso) le verità del Vangelo; egli non si sforzerà mai abbastanza a far progredire le condizioni della vita terrena e a trasfigurare questa vita. Questo stato di tensione e di guerra è necessario alla crescita della storia, è soltanto a tale condizione che la storia temporale prepara enigmaticamente la sua finale consumazione nel Regno di Dio. Ma se ciò che diciamo è esatto, lo scopo che il cristiano si propone nella sua attività temporale, non è il fare di questo mondo stesso il Regno di Dio, bensì di fare di questo mondo, secondo l’ideale storico richiesto dalle diverse età o, se così posso dire, delle mute  di questo, il luogo d’una vita terrena veramente e pienamente umana, cioè piena certamente di debolezze, ma anche piena d’amore, le cui strutture sociali abbiano come misura la giustizia, la dignità della persona umana, l’amore fraterno e che pertanto prepara l’avvento del Regno di Dio in modo filiale, non servile, cioè mediante il bene che fruttifica in bene, non mediante il male, che, pur andando verso il proprio luogo, serve al bene come mediante violenza...il cristianesimo deve informare o piuttosto transpenetrare il mondo, non in quanto questo sia il suo scopo principale (è per lui un fine secondario indispensabile) e non affinché il mondo divenga sin d’ora il Regno di Dio, ma affinché la rifrazione del mondo della grazia vi sia sempre più effettiva e l’uomo possa vivervi meglio la sua vita temporale”.
6.4.4.il compito temporale del cristiano-una santità volta verso il temporale
 Maritain distingue la Chiesa come gerarchia, che opera nel campo spirituale e non si preoccupa di animare direttamente il temporale, e la Chiesa come laici cristiani, che ha il compito dell’animazione del temporale. Il relatore ha osservato che nei documenti del Concilio Vaticano II la distinzione è presente, ma non così netta.
 Per Maritain occorre evitare sia il temporalismo che l’estraniazione. L’uomo, in quanto  cristiano, opera nel campo spirituale, come membro della Chiesa, e da cristiano anima il campo materiale nel temporale. Scrive Maritain in un celebre  paragrafo di Umanesimo Integrale che ritengo opportuno trascrivere quasi integralmente, tanto i suoi echi si ritrovano nella nostra comune formazione culturale-religiosa:
“...Un rinnovamento sociale vitalmente cristiano sarà opera di santità o non sarà; dico di una santità volta verso il temporale, il secolare, il profano... Se una nuova cristianità sorge nella storia, sarà l’opera di una tale santità...si è in diritto di attendere una spinta di santità di stile nuovo.
 Non parliamo di un tipo nuovo di santità, questa parola sarebbe equivoca (il cristiano non riconosce che un tipo di santità eternamente manifestata in Cristo). Ma mutando le condizioni storiche possono dar luogo a modi nuovi, a stili nuovi di santità. La santità di San  Francesco ha altra fisionomia da quella degli Stiliti, la spiritualità dei gesuiti, la spiritualità domenicana o benedettina rispondono a stili diversi. Così si può pensare che la presa di coscienza dei compiti temporali del cristiano chiami a un nuovo stile di santità, che si può caratterizzare come la santità e la santificazione della vita profana.
 A dire il vero, questo nuovo stile è nuovo soprattutto nei confronti  di certi concetti erronei e materializzati. Così, quando questi  subiscono una specie di accasciamento sociologico (è ciò che è accaduto spesso nell’età umanistica classica) la distinzione ben conosciuta degli stati di vita (stato regolare e stato secolare), compresa in senso materiale, è intesa in modo inesatto. Lo stato religioso, cioè lo stato di quelli che si votano alla ricerca della perfezione, è allora visto come lo stato dei perfetti, e lo stato secolare come quello degli imperfetti, di guisa che il dovere e la funzione metafisica degli imperfetti è d’essere imperfetti e di restar tali, di condurre una vita mondana non troppo pia e solidamente piantata nel naturalismo sociale (anzitutto in quello delle ambizioni familiari). Ci si scandalizzerebbe se dei laici cercassero di vivere diversamente: si preoccupino soltanto, mediante pie fondazioni, di far prosperare sulla terra dei religiosi che, in cambio guadagneranno loro il Cielo, e l’ordine sarà così soddisfatto.
 Questa maniera di concepire l’umiltà dei laici sembra esser stata molto diffusa nei secoli 16° e 17°. Il catechismo spiegato ai fedeli, del domenicano Carranza, allora arcivescovo di Toledo, fu così condannato dall’Inquisizione spagnola su un rapporto del celebre teologo Melchior Cano. <E’ da condannarsi, dichiarava questi, la pretesa di dare ai fedeli una istruzione religiosa che conviene ai soli preti>. Egli alzava la voce  con vigore anche contro la lettura della Sacra Scrittura in lingua volgare, e contro coloro che si assumono il compito di confessare tutto il giorno. Lo zelo spiegato dagli spirituali per indurre i fedei a confessarsi  e comunicarsi spesso gli era molto sospetto, e gli si attribuisce d’aver detto in una predica che, a suo parere, uno dei segni della venuta dell’Anticristo era la grande frequenza ai sacramenti.
 Più profondamente, e noi tocchiamo una questione molto importante della filosofia della cultura, si può intendere che c’è una maniera non cristiana di intendere la distinzione tra sacro e profano.
 Per l’antichità pagana, santo era sinonimo di sacro, cioè di ciò che è fisicamente, visibilmente, socialmente a servizio di Dio. Ed è solo nella misura in cui era penetrata dalle funzioni sacre che la vita umana poteva avere un valore innanzi a Dio. Il Vangelo ha profondamente mutato ciò, interiorizzando nel cuore dell’uomo, nel segreto delle relazioni invisibili tra le personalità divine e la personalità umana, la vita morale e la vita di santità.
 Da allora il profano non si oppone più al sacro come l’impuro al puro, ma come un dato ordine di attività umane, quello il cui fine specificatore è temporale, s’oppone a un altro ordine di attività umane socialmente costituite in vista di un fine specificatore spirituale mediante la predicazione della Parola di Dio e la distribuzione dei sacramenti. E l’uomo impegnato in questo ordine profano e temporale d’attività può e deve, come l’uomo impegnato nell’ordine sacro, tendere alla santità (e per giungere lui stesso all’unione divina e per attirare verso il compimento delle volontà divine l’ordine tutto intero al quale appartiene). Di fatto quest’ordine profano, in quanto collettivo, sarà sempre deficiente, ma noi dobbiamo tuttavia, e dobbiamo tanto più, volere e sforzarci affinché sia ciò che deve essere. Perché la giustizia evangelica domanda da sè di tutto penetrare, di impadronirsi di tutto, di scendere sino al più profondo del mondo.
 Ebbene, si può rilevare che questo principio evangelico s’è tradotto e manifestato nei fatti solo progressivamente e che il suo processo di realizzazione non è terminato.
 Le quali osservazioni ci fanno meglio capire il significato di questo nuovo stile di santità, di questa nuova tappa nella santificazione del profano dicui abbiamo parlato or ora. Aggiungiamo che questo stile, toccando alla spiritualità stessa, dovrà senza dubbio comportare caratteri particolari propriamente spirituali -a esempio un insistere sulla semplicità, sul valore delle vie ordinarie, su quel tratto specifico alla perfezione cristiana d’essere la perfezione non di un atletismo stoicistico di virtù, ma di  un amore tra due persone, la persona creata e la Persona Divina, infine su quella legge di discesa dell’Amore creato nelle profondità dell’umano per trasfigurarlo senza annullarlo, si cui s’è parlato nel capitolo precedente- caratteri di cui  alcuni santi dell’età contemporanea sembrano aver il compito di farci presentire l’importanza“.
6.4.5.L’ideale storico concreto di una nuova cristianità
 L’ideale storico concreto di una nuova cristianità è l’essenza ideale oggi realizzabile, mediando con la cultura d’oggi.
 La cristianità può realizzarsi in forme diverse; la nuova cristianità deve essere in sintonia con il movimento storico.
 Si possono distinguere degli elementi comuni ad ogni cristianità ed esattamente:
a)un movimento comunitario;
b)un regime personalistico;
c)un regime non sacralizzato.
 La cristianità può essere realizzata analogicamente in diversi modi.
 La cristianità medievale, che Maritain considera positivamente come artefice di un mondo il quale -pur pieno di manchevolezze- era “tale da poter essere vissuto“,aveva costruito il proprio ideale storico concreto intorno ad una concezione sacrale-cristiana del temporale (Il Sacro Romano Impero). Sue caratteristiche erano:
a)un’unità organica qualitativamente massimale (fondata sullo spirituale);
b)predominio del compito ministeriale del  temporale, rispetto a quello dello  spirituale (il re come “vescovo dell‘esterno“, le crociate);
c)causalità strumentale del temporale rispetto al sacro;
d)impiego dell’apparato temporale per i fini spirituali (mezzi coercitivi);
e)diversità di razze sociali (intesa come  disparità essenziale di categorie sociali ereditarie, ceti/classi) riconosciuta alla base della gerarchia delle funzioni sociali e delle relazioni d‘autorità;
f)un’opera comune: edificare l’impero di Cristo.
 L’ideale storico concreto di una nuova cristianità deve basarsi su una concezione profana-cristiana del temporale.
 Sue caratteristiche devono essere:
a)il pluralismo (economico, giuridico, religiosa; l’unità non parte dall’unità di fede, ma da un’unità minimale sul temporale a livello della persona, per questo la nuova cristianità “può essere cristiana pur raggruppando nel suo seno dei non cristiani”; la nuova cristianità si basa sulla tolleranza dogmatica verso le altre religioni (ritiene la libertà dell’errore come un bene in sé) e sulla tolleranza civile, intesa come dovere dello Stato di rispettare le coscienze);
b)l’autonomia del temporale (intesa come autonomia della ricerca del fine intermedio);
c)la libertà della persona (la forza non deve essere usata per costringere alla verità, vi deve essere un minimo di coercizione per un minimo di unità temporale);
d)l’unità di razza sociale: si deve sviluppare una democrazia personalista;
e)la sua opera comune deve essere edificare una comunità fraterna sulla terra.
 Mediante qualcosa di divino, l’Amore, devono realizzarsi istituzioni buone ispirate all’amicizia civile.
 In conclusione bisogna salvare le verità della cultura moderna dagli errori in cui tale cultura è coinvolta e ciò mediante una rifusione sostanziale e totale che consenta di arrivare al primato vitale della qualità sulla quantità, del lavoro sul denaro, dell’umano sul tecnico, della saggezza sulla  scienza, del servizio comune delle persone umane sulla cupidigia individuale di arricchimento  indefinito o sulla cupidigia statale di potenza illimitata.
6.5. Valutazione della filosofia di Maritain
 Ci si può chiedere se i valori proposti a fondamento della nuova cristianità derivino necessariamente ed esclusivamente dalla fede cristiana. Maritain ritiene che solo la fede cristiana li possieda e che non possano essere raggiunti per altre vie.
 Ci si può chiedere se questi valori, sentiti come cristiani, siano derivati solo dal Vangelo o derivino anch’essi da una mediazione.
 Ci si può chiedere quale sia lo spirito del servizio cristiano e se il mondo sia cieco e incosciente senza i cristiani.
 La filosofia di Maritain ha il merito di sottoporre a un vaglio critico l’umanesimo e la cultura moderni. Comporta il rischio di una sacralizzazione del temporale.
7.La teologia di Karl Rahner (1904-1984)
7.1.Applicare la svolta antropologica in teologia
 Karl Rahner vuole recuperare l’antropocentrismo applicando anche in teologia, e non solo nelle scienze del temporale, la svolta antropologica, per superare così ogni opposizione tra Dio e mondo. Secondo Rahner la cultura moderna deve animare la nostra comprensione del Vangelo.
  Secondo questa concezione, la teologia deve operare dall’interno della cultura moderna, dove si è avuta una generalizzata svolta antropologica, nel senso che l’uomo è posto al centro della teoria e della prassi (soggettività moderna) come quel soggetto che pensando ed agendo mette sempre in questione sé stesso. L’uomo è divenuto l’oggetto centrale della filosofia; non si è prodotta solo quella svolta copernicana di cui parlava Kant, ma si ritiene che ogni domanda dell’uomo sull’essere sia anche necessariamente anche domanda sul soggetto che si interroga (cfr Heidegger, Essere e tempo).  
 Secondo Rahner, che si muove nella linea di pensiero che  va da Tommaso d’Aquino a Heidegger, vi è nell’uomo un autopossesso conoscitivo originario mediante il quale l’uomo conosce sé stesso; tale autopossesso conoscitivo originario è unito alla conoscenza di sé stesso, ma da questa sempre distinto. Nell’atto della conoscenza bisogna distinguere una conoscenza tematica (dell’oggetto preso in considerazione) e una conoscenza atematica (di sé stesso) distinta dalla prima. Quando conosce un ottetto, l’uomo ha sempre questo autopossesso conoscitivo, nel senso che conosce l’oggetto come uomo e  quindi conconosce sè stesso (conosce di conoscere e in tal modo conosce sé stesso). Questa è una esperienza trascendentale (esperienza del continuo superamento  dell’oggetto della conoscenza) che è condizione della possibilità di conoscere, nel senso che ciò che non ha rapporto con l’uomo non solo non interessa ma neppure si può conoscere.
 Anche in teologia la svolta antropologica è feconda, doverosa e fondata rigorosamente. Infatti la problematica teologica non ruota intorno a  verità oggettuali esteriori all’uomo, al dogma oggettuale, ma intorno alla irriducibile soggettività dell’uomo. L’uomo non è un settore particolare della teologia: i problemi dell’uomo sono tutta la teologia. Tale concezione non contraddice un sano teocentrismo/cristocentrismo. L’uomo è l’essere dell’assoluta trascendenza verso Dio. La soggettività umana confrontandosi con gli oggetti come finiti rimanda all’essere assoluto, a Dio: Dio e l’uomo non sono contrapposti. In ogni atto è anche sempre implicata l’apertura all’essere assoluto di Dio, che costituisce il termine ultimo di ogni atto umano. Ciò comporta la sconfitta dell’umanesimo ateo (Feuerbach / Satre), che afferma “o Dio o l’uomo”, che è necessario perché l’uomo viva che Dio muoia.
7.2L’uomo è aperto e disponibile alla Rivelazione
 Questa concezione è cristocentrica  perché l’umanità dell’uomo Gesù, Dio, è inscritta nella realtà dell’uomo. La Rivelazione è rivelazione della salvezza dell’uomo, tutte le realtà sono salvifiche in relazione all’uomo. Si risolve in tal modo l’alternativa tra teologia liberale (Rivelazione come proiezione della soggettività umana) e la teologia di Barth (Rivelazione come no detto all’uomo). Nell’uomo vi è una apertura all’essere totale che non è possesso dell’essere totale. Poiché l’uomo è aperto e disponibile a una rivelazione di Dio, senza predeterminarla, Dio non dirà un “no” all’uomo (“no” totale), ma presupporrà una certa capacità di accoglienza. La Rivelazione presuppone l’uomo, l’uomo non pretedermina la Rivelazione (vi è nell’uomo un’apertura assoluta all’assoluto).
7.3.La Grazia
 La Grazia è Dio che si autocomunica, non solo quindi dono di Dio (qualcosa che Dio ci dà), ma è Dio stesso che si dà, che colma l’apertura dell’uomo all’assoluto. Dio è il futuro assoluto dell’uomo.
7.4L’ìncarnazione
 L’incarnazione è la promessa irrevocabile di Dio in Cristo, opera della Grazia nella storia dell’uomo, inizio e fine dell’antropologia, che  è teologia. L’uomo che accetta fino in fondo la propria esistenza dice di sì a Dio e a Cristo; dire di sì a Cristo e a Dio significa accettare fino in fondo la propria esistenza.
7.5L’ateismo
 Ateismo significa rifiutare Dio. Il rifiuto di Dio può situarsi su due livelli: a livello della conoscenza atematica (vale a dire nella profondità del cuore) o a livello della conoscenza tematica (chi si proclama ateo a questo livello non significa che non abbia accettato Dio sul livello atematico). Viceversa chi si proclama credente può rischiare di non accettare la parola di Dio sul piano atematico.
 Vi è una difficoltà ad esprimerci con schemi culturali del passato nel valutare il dilagante e dichiarato ateismo della moderna secolarizzazione. Vi è la possibilità di un cristianesimo anonimo: comunque agisca, l’uomo agisce accettando o rifiutando Cristo, anche se non arriva ad una esplicita affermazione di fede. Vi è una storia generale della salvezza che coinvolge tutti gli uomini di tutti i tempi, per il fatto di essere aperti all’assoluto, e una storia speciale della salvezza che,  a livello esplicito, è la storia degli atti con cui Cristo ci salva.
7.6 Valutazioni della teologia di Karl Rahner
 Secondo il teologo Han Urs Von Balthasar, Rahner avrebbe valorizzato l’atto secolare dell’amore esplicito dell’uomo a discapito dell’amore esplicito per Dio.
8.Teologia e prassi di liberazione: la teologia della speranza, la teologia politica, la teologia della liberazione
8.1 Considerazioni generali
 La teologia della speranza, la teologia politica e la teologia della liberazione considerano i riflessi per la teologia delle prassi di liberazione e, in particolare del rapporto tra il Vangelo e le culture militanti formatesi nel concreto delle prassi di liberazione (movimento operaio, movimenti di liberazione nell’America Latina, movimento femminista, movimenti giovanili, movimenti di liberazione di altri gruppi sociali emarginati).
8.2.Teologia della speranza
 La teologia della speranza raccoglie il nucleo della provocazione culturale del neo-marxismo e della filosofia della speranza del filosofo tedesco Ernst Bloch (1885-1977).
 Secondo Bloch, la crisi del marxismo scientista ha prodotto una riscoperta della corrente calda del marxismo, quella filosofia che insegna a sperare. La storia è unificata dal primato del futuro; l’atto dello sperare orienta la storia verso l’utopia, intesa come ogni presente che può essere realizzato sebbene non predeterminabile.
 Il teologo tedesco Jurgen Moltmann (1926), stimolato dalla lettura dell’opera di Bloch, vista come espressione di un marxismo che cattura la speranza (si noti che il mondo protestante pone al centro della riflessione teologica l’escatologia [da éskata “le cose estreme” e logia “discorso” - “trattazione”: parte della teologia che ha per oggetto l’indagine sui destini ultimi dell’uomo e dell’universo. Fonte:Zingarelli 2001 -Vocabolario della lingua italian), costruì una teologia della speranza non più come teologia di una virtù (le virtù teologali: fede, speranza, carità), ma come teologia che adotta la speranza come una prospettiva per lumeggiare tutta  la fede. La centralità della prospettiva escatologica comporta che il futuro riacquisiti una dimensione temporale e che l’annuncio cristiano apra un domani alla storia umana. Secondo Moltmann il cristianesimo è escatologico dal principio alla fine. Egli propone una visione di Dio non più in alto e immobile, ma concepito come futuro assoluto, assolutamente fedele (io sarò quel che sarò, YHWH) e una visione della storia non più ciclica, ma aperta al futuro di Dio, fondata sulla resurrezione di Cristo e non sulla base dell’uomo soltanto; ciò che consente di dare una speranza anche per chi è debole e perde e non solo per chi è forte e vince.
 Ciò comporta per Moltmann una nuova visione della Chiesa, intesa come comunità dell’esodo e non come istituzione conservatrice. In ciò si può vedere un aggancio per una teologia politica.
8.3.Teologia politica
 La teologia politica può essere considerata una provocazione culturale lanciata dai teologi Moltmann, Metz (Johann-Baptist Metz, 1928) e da molti altri.
 Essa parte dalla considerazione, non solo della frattura tra società e religione, ma anche dei risultati della critica marxista e illuminista, che ha messo in luce  la dimensione ideologica e sovrastrutturale della religione in funzione di determinati rapporti di potere con funzione di conferma del potere esistente. Ritiene che non sia sufficiente dimostrare teoricamente la non opposizione tra Dio e l’uomo, ma che sia necessaria una pratica diversa da parte dell’uomo di fede, per cui la fede religiosa, specialmente se istituzionalizzata, e la vita del credente assumono un ruolo politico. E’ quindi necessario costruire una nuova teologia politica, distinta dalla vecchia teologia politica che sacralizzava l’aspetto politico-istituzionale o affidava alla Chiesa le redini del potere.
 Occorre innanzi tutto deprivatizzare la religione. Privatizzare la religione significa sottolineare ciò che la Parola di Dio ha da dire all’uomo come singolo (v.specialmente Rudolf Karl Bultmann, 1884-1976). E’ necessario deprivatizzare non eliminando il soggetto e l’esistenza (Moltmann è discepolo di Rahner), ma mostrando che questa esistenza è implicata nelle mobilità sociali e che se la fede non comprende le sue implicazioni sociali rimane astratta anche rispetto al singolo. Si deve così arrivare a una nuova formulazione del messaggio cristiano che determini in maniera post critica il rapporto tra Chiesa e società.
  La scuola filosofica marxista di Francoforte (Mark Horkeimer, Theodor Wiesegrund Adorno, Herbert Marcuse, Erich Fromm) riteneva che non fosse possibile un uso pubblico della ragione (illuminismo) senza una prassi liberante. Analogamente secondo il teologo Metz non è possibile una fede critica e adulta senza che si instauri una relazione tra prassi della fede e concezione teoretica della fede. Non basta domandarsi “la mia fede è ragionevole?”. Bisogna che nel rapporto tra fede e prassi sociale la fede si mostri efficace nella vita.
 Dal punto di vista della riflessione biblica, questa corrente teologica evidenzia come la Bibbia annunci una salvezza pubblica  e non privata. La Bibbia contiene un annuncio critico e liberante, escatologico. Questa teologia introduce il concetto di riserva escatologica fondata sulla memoria di Cristo. La riserva escatologica ha in teologia la stessa funzione dell’utopia in filosofia, fa vedere la costante provvisorietà di questo mondo. La teologia escatologica corrisponde alla teoria critica della società (scuola di Francoforte).
 La riserva escatologica non è priva di contenuto, perché è fondata sulla memoria di Cristo, della sua passione, morte e resurrezione: è una memoria sovversiva e liberatrice che rompe l’incanto della coscienza dominante.
 La Chiesa, in questa prospettiva, viene concepita come luogo della libertà critica nei confronti della società, di questa memoria critica e sovversiva, della testimonianza pubblica di ciò che può dire e dice l’annuncio di Cristo. Nel medioevo la Chiesa si è servita della società politica, nella concezione di Maritain la Chiesa si divide il compito con la società politica: secondo la teologia politica non c’è annuncio della Chiesa che sia neutrale, non politico. Anche all’interno della Chiesa, come all’interno della società, l’opinione pubblica esercita un ruolo, per cui la teologia deve esercitare un influsso responsabile sull’opinione pubblica  e di conseguenza sulle istituzioni. Quindi non si risolve in un annuncio teorico, ma rende una collaborazione e un servizio disinteressato.
 E’ stato osservato che quella di Metz sarebbe una teologia politica senza contenuti. L’obiezione è fondata, perché in effetti non è possibile una teologia politica teorica, che non si risolva in una prassi di liberazione.
8.4La teologia della liberazione
  La teologia della liberazione tenta di accompagnare alla teoria la prassi. Essa non comincia la sua riflessione solo dalle promesse divine, ma anche dalle concrete possibilità di liberazione. E’ teologia che parte dalla prassi di liberazione. E’ un nuovo pensare teologico che si origina dalla prassi.
9.Vivere il Vangelo nella nostra storia
9.1. Non esiste un Vangelo non mediato
  Il Vangelo non è solo un’idea da capire, una visione globale del mondo, è anche un appello personale da vivere: la mediazione culturale è intima ad ogni esperienza umana, quindi anche a quella del Vangelo.
 Secondo il teologo Edward Schillebeeckz (1914-), la realtà dell’esperienza è intimamente legata ad un modello culturale -anche la fede-, è colorata / codeterminata dal bagaglio culturale.
 La fede è intimamente inserita nella storia e non c’è fede se non espressa (mediante parole, immagini, categorie concettuali, immagini rappresentative). E’ una realtà che discende dall’incarnazione, vista come condiscendenza di Dio alla realtà umana per incontrarci sul nostro terreno. 
 Non c’è un Vangelo puro, non mediato o da non mediare culturalmente. Anche la ricerca dell’essenziale nel Vangelo non è mai la ricerca di un nucleo astorico, formulabile una volta per tutte e poi rivestibile con i più diversi panni culturali, un dato conchiuso in sé stesso. Si tratta della ricerca di un incontro analogo, proporzionato e proporzionale all’incontro con Cristo che hanno avuto i discepoli ma originale, con categorie, immagini ed espressioni della nostra cultura. Se non ci fosse nessun cristiano non si sarebbe nessun Vangelo.
 Non esiste un Vangelo non mediato. Quello che chiamiamo Vangelo scisso dalla cultura, non mediato, è in realtà un Vangelo inculturato in una cultura morta.
 La prima mediazione culturale consiste nel vivere il Vangelo nella propria vita. La fede vissuta costituisce una mediazione culturale. Vivere il Vangelo significa accogliere il Vangelo con tutta la propria cultura, con tutta la propria personalità. Non significa svuotarsi di sé stessi (in questo senso è errata l’ascetica che riduce l’umiltà a passività), ma significa accogliere il Vangelo con sé stessi, attivando tutta la capacità di accoglienza che si ha in sé stessi.
 Mediazione culturale significa poi dare voce al Vangelo, cioè farlo essere Vangelo, farlo vivere dagli altri, per gli altri. Dare voce significa azione (per evitare l’intellettualismo) e parole (per evitare il prassismo), attraverso il dialogo culturale e la condivisione attiva. Bisogna vivere il Vangelo nella propria storia: l’evangelizzazione è sempre inculturazione.
9.2.Nell’attualità: vivere la fede in un mondo divenuto adulto e autonomo
 Nel medioevo la mediazione culturale si è risolta valorizzando tutta la società umana perché la cultura diventasse tutta teologia, perché la cultura diventasse tutta cristiana. E’ stato un progetto affascinante, ma sbagliato ed antievangelico. Il disincanto che ne è conseguito, nel nostro mondo divenuto adulto e autonomo,  non è stato solo una dura necessità, ma è stato un aprire gli occhi sul dinamismo vero del Vangelo. Cristo non vuole colonizzare tutta la realtà umana, sacralizzare tutto,  ma utilizzare quello che basta per l’annuncio; in questo senso Dio è per tutti.
 La creaturalità del mondo va compresa nell’orizzonte storico-salvifico del mondo: attraverso l’incarnazione il mondo appare totalmente mondano e Dio totalmente divino (il mondo non è un “pezzo” di Dio). E’ in questo senso che si parla di autonomia mondana.
 Ci si chiede se la separazione tra la Chiesa e la società porterà alla insignificanza  della fede.
 Se il Vangelo fonda e annuncia la mondanità del mondo, già solo per questo non è insignificante; esso è il garante continuo della non sottomissione del mondo a nuovi idoli. Contro l’alienazione sacrale, mantiene il mondo nel suo vero futuro.
 Il Vangelo ha una sua valenza politica, nel senso che può fondare una mediazione politica. Quest’ultima non si risolve essenzialmente  solo in una animazione del mondo politico mediante principi di fede che consentano una analisi e una comprensione della situazione. Ci si può chiedere infatti se come cristiani abbiamo principi di azione politici diversi strutturalmente dai non cristiani e se la carità sia patrimonio esclusivo cristiani. In realtà l’annuncio centrale di Cristo come salvatore assoluto dell’uomo attraverso la mediazione, che fonda gesti paradossali, capacità critica e la denuncia, permette di difendere l’umano minacciato  dai falsi assoluti. La mediazione culturale non deve tendere a sintetizzare la cultura cristiana e la cultura pagana in una cultura cristiana mondana ma, attraverso l’annuncio, la prassi e la teologia, contribuire a fondare una cultura veramente umana e autonoma.
9.3.Considerazioni sulla polemica tra FUCI e CL (“cultura della mediazione o cultura della presenza?”)
  A chi si chiede se la salvezza in Cristo debba essere cercata fuori della storia o nella storia bisogna rispondere che è possibile e necessario vivere un nuovo tipo di rapporto Chiesa e mondo e ciò non solo come singoli ma anche comunitariamente. Bisogna creare le condizioni della possibilità dell’ascolto, tenendo conto dell’interlocutore, ma appunto non solo come preti in sacrestia e laici come individui responsabili nella loro coscienza.
  In questo senso il problema di stabilire quale presenza debba essere realizzata dai cristiani nel mondo è effettivo. Sicuramente per rendere possibile un significato della fede nella realtà storica è necessaria una presenza comunitaria, ma di che tipo?  Ci si può chiedere, in questa prospettiva, quale tipo di interventi della gerarchia sia giustificato, legittimo e produttivo (parola disinteressata, astinenza, quali parole?). Star zitti non è legittimo né per la gerarchia né per i laici, ma vi è la possibilità di una ambiguità della presenza.