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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

domenica 3 settembre 2017

Scritti politici 2016-2017 - materiale per un tirocinio alla democrazia - PARTE 2

Scritti politici 2016-2017 - materiale per un tirocinio alla  democrazia - PARTE 2

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29. Economia e comunione

Di solito sono piuttosto parco nel citare e riportare documenti dei Papi, perché è stata letteratura sovrabbondante che ha un po’ compresso tutto il resto limitando il dialogo,  ma questo breve pezzo  che segue lo devo proprio trascrivere integralmente per la grande emozione che mi ha procurato e il sentimento di totale condivisione.
dal sito WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170204_focolari.html

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO "ECONOMIA DI COMUNIONE",
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017



Cari fratelli e sorelle,

 sono lieto di accogliervi come rappresentanti di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore, Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le testimonianze.
  Economia e comunione. Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi, competenti, ma non solo questo. L’imprenditore da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita mostrate che economia e comunione diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di talenti, di profitti.
  Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.
  La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia ce lo dice in diversi modi. Non a caso la prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire. E’ stato Gesù, proprio Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori, due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.
  Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.
  Si capisce, allora, il valore etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune. Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la comunione. Quando condividete e donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone! E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare questo!
  La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un tema centrale nel vostro movimento.
  Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per combattere la povertà.   E tutto ciò, da una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della società restavano molti. Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.
  Ma – e questo non lo si dirà mai abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti.
  Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!
  L’economia di comunione, se vuole essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della fraternità universale non è piena.
  Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani. Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi a mangiare con i porci. Nessun figlio, nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.
  Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra storia dicono che la comunione e l’impresa possono stare e crescere insieme. Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese, piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri. Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.
  Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi, troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo. Come fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?
  Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è solo divisione ma anche moltiplicazione dei beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola. Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore, e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi, ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro, seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona. L’economia di oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima, della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e solo dopo del vostro denaro.
Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.
  Queste cose voi le fate già. Ma potete condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione.
Vi auguro di continuare sulla vostra strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo ancora di più.
Vi auguro di continuare ad essere seme, sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.

30. Pace, perdono  e indole personale

Dal Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco
La radice domestica di una politica nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia [= La gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza, ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società.  D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
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  In una riunione del gruppo parrocchiale di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari della vita pacificata. Preferiamo essere amati  o temuti? Ci conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel riconoscere caratteristiche della nostra indole come l’aggressività, l’intransigenza, la durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di conflitto. Abbiamo letto un brano della Regola  di Benedetto da Norcia (480-547), nella quale si consiglia ai capi di comunità di cercare di farsi amare più che temere, e un brano tratto dal Principe di Niccolò Machiavelli (1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il capo che faccia conto sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito nelle avversità, mentre il timore dura per sempre e rende coese le società. Infine con l’aiuto di don Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la parabola detta del Servo malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un servo viene condonato un debito rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a sua volta a un suo debitore un debito molto più piccolo, facendolo gettare in prigione, subendo lo sdegno del suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare  agli altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone del nostro Meridione.  Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace  di papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.
  In quel messaggio il Papa indica la necessità di una politica nonviolenta  a partire dalla realtà domestica. Quest’ultima non sempre è  pacificata  e fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono espressione e origine. Parlare di pace è facile  e bello, praticare la pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto le pratiche quotidiane di vita  che possono fare soffrire e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche, religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare, dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati Uniti d’America.
Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si legge nel Messaggio  del Papa: questa, in realtà, più che una constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione. E’ però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale, fino a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado veniamo consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’, in fondo, una via neo-tribale  ad una religione difensiva, di protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede come neo-tribù di famiglie. Difficile però far sopravvivere un mondo di sette miliardi di persone con organizzazioni neo-tribali: in questo modo, in realtà, ritirandosi sostanzialmente dalla politica, si lascia il campo alle forze che, a livello globale, diffondono un’organizzazione ingiusta e predatoria delle società, creando tanta sofferenza e, in particolare, privando progressivamente, nel nome della libertà, le organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro competono per realizzare il bene comune, in particolare l’equità sociale. L’ideologia globale proclama la legge della giungla, quella del forte che mangia il debole e rifiuta ogni limite posto dalle collettività a fini di giustizia sociale: preferisce rapporti bilaterali, tra un forte e un debole, e in questo modo finisce come deve finire. Così una persona può cercare di essere buona e di farsi amare, e anche di costruire una famiglia basata su questi principi, ma se poi non si occupa di politica, quindi di ciò che c’è appena oltre la porta di casa, non fa tutto il suo dovere, anche in senso religioso. E’  docile, non usa la violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male, di arrendevolezza. Capire la società per influirvi consapevolmente è però più difficile che capire la propria famiglia, fondata su rapporti elementari. Anche perché la società si è fatta molto più complessa di una volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E non bastano i testi sacri per orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta solo di questi ultimi, di qualche istruzione liturgica  e di famiglia è insufficiente. Fin da molto piccoli, fin dalle società di bambini, ci si confronta con il male sociale, ma se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o in religione, una formazione specifica non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci su richiede di creare un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà sociale come la parrocchia dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una grande responsabilità. Come partire, o ripartire, nei casi in cui si è interrotta una tradizione, una memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese. Innanzi tutto occorre creare occasioni di incontro in parrocchia molto più prolungate delle usuali liturgie ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe abituarsi a venire a studiare da noi, insieme agli altri: così la religione inizierebbe ad apparirgli utile per la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto, con molti libri, connessione wi-fi e strumenti multimediali. E un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo. Poi un programma di riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che spieghi come si lavora insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più esperienza, in modo che il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato per lo studio personale. E' infatti dal confronto tra tanti punti di vista che scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.
 Serve materiale, soprattutto servono libri, che ora sono divenuti più accessibili in formato digitale. Se non se ne ha a sufficienza o non se ne ha del tutto, come fare a capire la società?
 Ricordo che la sala della Rettoria di S. Ivo alla Sapienza, a corso Rinascimento, nell’antica sede dell’Università Sapienza, dove si riunivano i soci del movimento romano dei Laureati cattolici che tanta parte ebbero nella ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la caduta del fascismo, era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante sedie e, intorno, tanti libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio innanzi tutto,  dalla religione individuale e domestica alla politica animata dai valori di fede, attraverso la costruzione di una sapienza collettiva. Era un posto all'interno dell'Università, proprio lì dove gli universitari e i loro docenti passavano gran parte del giorno: al centro della società non in suo angolino appartato.

31. Un mondo sta finendo


Le autorità che parteciparono alla firma del Trattato del 1951 di Parigi che istituì la prima delle Comunità Europee,  la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio,  tra Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Olanda fuorono: Paul Van Zeeland, ministro degli esteri belga, Joseph Bech, ministro degli esteri del Lussemburgo, Joseph Meurice, ministro del Commercio estero del Belgio, Carlo Sforza, ministro degli esteri italiano, Robert Shuman, ministro degli esteri francese, Konrad Adenauer, capo del governo e ministro degli esteri tedesco, Dirk Stikker, ministro degli esteri olandese, Johannes van de Brink, ministro degli affari economici olandese. L’iniziativa del trattato fu del francese Robert Shuman, per mettere fine alle situazioni di potenziale conflitto tra Francia e Germania. L’azione della Germania, che nella firma del trattato fu rappresentata al più alto livello, fu determinante. Ma senza la partecipazione dell’Italia il trattato sarebbe rimasto, in definitiva, un accordo franco-tedesco limitato, non l’abbozzo di un’Europa unita a livello continentale. L’Unione Europea si dissolverà quando uno di questi stati fondatori, Francia, Germania e Italia, la dovesse lasciare.

[Dal Manifesto di Ventotene,  scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

  Un'Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.
 La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in Russia.
  Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittimeLe gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière" [=secondo un programma sempre uguale] per trovarsi poi di fronte all'insolubile problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo dell'U.R.S.S. [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il regime politico che aveva sostituito quello imperiale zarista nel dominio della Russia e delle popolazioni asiatiche conquistate dai russi in epoca zarista, durato dal 1917 al 1991], col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.
   La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.
  Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:

a. non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa(es. industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti; 

 b. le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.; 

c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita.
 In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;

d. la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori; 

e. la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l'osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.

 Questi sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante.


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 Mie considerazioni


  Quando si ragiona di politica, bisognerebbe tenere sempre tra le mani l’ultimo volume del corso di storia delle scuole superiori. Quello è un libro da cui non separarsi per tutta la vita. E se, per qualche motivo, non lo si ha più in casa, bisogna ricomprarlo. I libri sono tra le cose più a buon mercato nella nostra civiltà. Ma ce ne sono molti di inutili, semplice solletico per la mente. Non è così per quelli di storia delle scuole. Senza quel libro di storia di cui ho detto, da dove partire? Si fanno solo delle chiacchiere, riprendendo quelle ascoltate in televisione o, peggio, quelle che si fanno sulle reti sociali sul WEB.
  Quando sono nato, erano passati solo dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e nove anni dall’istituzione della Repubblica italiana democratica. Si viveva in un’epoca di forte sviluppo economico,  nonostante che le ferite tremende della guerra fossero ancora aperte nella società e nei luoghi dove la gente viveva. L’economia nazionale era influenzata favorevolmente dalla cooperazione internazionale e dalle  condizioni di mercato dell’epoca, con basso costo del lavoro e dell’energia. Negli anni successivi un certo benessere si diffuse anche nelle masse popolari, generando varie rivendicazioni sociali. Questo ciclo economico ebbe fine all’inizio degli anni ’70. Seguirono circa dieci anni di ciclo depressivo, poi circa altri dieci anni di ripresa economica, poi iniziò l’era dell’economia mondiale che stiamo ancora vivendo, basata sulla globalizzazione dei mercati con vantaggi e svantaggi per la gente e, infine, una lunga depressione economica in Europa, arrivata nel 2008 dagli Stati Uniti d’America e ancora non superata.
 Dunque, dicevo, sono nato a dodici anni dalla fine della guerra mondiale.
 Se oggi andiamo indietro di dodici anni che troviamo? Più o meno l’Europa di adesso. Un continente sicuro e pacificato.  Ma sarebbe così  anche andando più indietro nel tempo. Fino agli anni ’80 troveremmo un’Europa divisa in due da regimi politico-economici molto diversi: quelli capitalistici nella parte occidentale, quelli comunisti in quella orientale. Il confine, che Winston Churchill definì “Cortina di ferro” per la sua impenetrabilità, correva lungo le due parti della Germania in cui quello stato era stato diviso politicamente dopo la caduta del regime nazista, lungo il confine tra l’Austria e l’Ungheria e quello tra l’Italia e la Jugoslavia, uno stato che oggi non c’è più, ma che all’epoca federava Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e  Montenegro, e infine lungo il confine tra l’Italia e l’Albania e quello tra quest'ultima, la Bulgaria, da una parte, e la Grecia dall'altra. Ma l’Europa occidentale, e l'Italia in particolare,  non era molto diversa da ora.
  Nel 2012 i saggi del Premio Nobel attribuirono quello per la pace all’Unione Europea. Infatti è proprio questo più eclatante effetto del processi di cooperazione e integrazione europea: un lunghissimo periodo di pace, quale le generazioni europee precedenti non avevano mai vissuto.  Quando ero bambino, facevo le elementari, mia nonna Rosa, nata all'inizio del Novecento,  mi raccontava che nella sua vita c’era stata una guerra più o meno ogni dieci anni, perché a quelle mondiali  bisognava aggiungere quelle  coloniali. E si stupiva che non ne fosse ancora iniziata una: si era all’inizio degli anni Sessanta. Anche il mio maestro delle elementari la pensava nello stesso modo. Per lui ci sarebbero state a breve altre guerre e noi, ci diceva, dovevamo prepararci, perché sicuramente saremmo stati chiamati a combatterne una, non appena avessimo raggiunto la maggiore età, che all’epoca era a ventuno anni. Ma quelle guerre non vennero da noi. Negli anni ’90 scoppiarono in Jugoslavia, nel processo di dissoluzione di quello stato, e anche l’Italia vi partecipò, ma solo con l’aviazione militare e nel quadro di un’azione della NATO. Fu un conflitto limitato, interno alla stessa Jugoslavia. Oggi la Slovenia e la Croazia, che combatterono quelle guerre, sono parte dell’Unione Europea, e Bosnia-Erzegovina e Serbia sono in procinto di diventarlo.
 A che cosa è stato dovuto quel lungo periodo di pace?
 Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il mondo si polarizzò intorno alle due maggiori potenze vincitrici, i maggiori tra gli Alleati che avevano combattuto i fascismi europei, tra i quali quello italiano, precursore e modello di tutti i fascismi europei: Stati Uniti d’America, una potenza americana,  e Unione Sovietica, una potenza euroasiatica; la prima ad economia capitalista avanzata, la secondo ad economia capitalista. Entrambe volevano esportare il loro modello politico ed economico in tutto il mondo. Oguna riteneva l'altra un pericolo mortale ed entrambe, in funzione essenzialmente difensiva come dichiaravano i loro capi, si dotarono di armi nucleari sempre più potenti e sofisticate. Se usate, esse avrebbero portato alla distruzione del mondo intero, compresi gli stati che le avevano lanciate. Per farsi un’idea della situazione dell’epoca si può vedere il film Il dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, del regista Stanley Kubrik, realizzato nel 1964, (in commercio su DVD ad €7,43) e il romanzo di Nevil Shute, L’ultima spiaggia, del 1957 (disponibile in e-book ad €3,99). Un conflitto globale, mondiale, con il coinvolgimento di quelle due super-potene divenne impossibile. In questo una grande anima come Giorgio La Pira vide la manifestazione di un disegno provvidenziale. In realtà conflitti locali, più limitati, continuarono ad essere combattuti, anche tra la grandi potenze, come nella guerra in Corea (1950-1953) e nella lunghissima guerra in Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia), dal 1955 al 1975. Ma non in Europa, in particolare lungo la frontiera tra Germania e Francia, al centro dell’Europa, che divideva i sistemi politici dai quali erano originate le due Guerre mondiali del Novecento. Perché? E’ stato merito del processo di integrazione e cooperazione europea che ha progressivamente eliminato le ragioni di conflitto e avvicinato i popoli europei, fino a rendere inutili i posti di frontiera tra nazioni che si erano lungamente e strenuamente combattute. Un processo che non ha riguardato le nazioni integrate nell’analogo organismo di cooperazione europea promosso nell’area dominata dai sovietici, il COMECON, con la conseguenza che gli stati che hanno aderito all’Unione Europea dopo essere stata inclusi dal 1945 nell’area di influenza sovietica appaiono molto meno integrati tra loro di quanto appaiono le nazioni dell’Europa occidentale. In particolare fra di essi è ancora molto forte il nazionalismo che il processo di integrazione europeo ha fortemente contrastato.
  Il processo di pacificazione tra i popoli europei attuato progressivamente nel quadro di politiche internazionali europeiste ha comportato incisive riforme sociali, nel senso di quelle auspicate dagli autori del Manifesto di Ventotene, in particolare nel settore dell’economia, del lavoro e  della sicurezza sociale. Esse erano nel programma politico dei partiti socialisti europei, fin dall’Ottocento. La Chiesa cattolica inizialmente le contrastò: del resto  la prima enciclicasociale,  intitolata Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone 13°, era diretta in primo luogo contro il socialismo. Poi, seguendo in questo le impostazioni dei partiti popolari democratici europei, ne ha recepito diversi elementi, tanto che ho letto che al nuovo presidente statunitense il Papa attuale appare sospetto di socialismo. Ma la giustizia sociale, in particolare una ragionevole distribuzione delle ricchezze che consenta alle masse di liberarsi dalla povertà e di condividere il benessere reso possibile dai moderni mezzi di produzione, quindi  ciò che si intende con l’espressione sicurezza sociale, che significa anche assistenza nella malattia e negli altri rovesci della vita (come i disastri naturali), sostegno nella vecchiaia,  e protezione del lavoro dagli arbitri di chi controlla i processi produttivi, trova giustificazione in sé stessa e non dipende da questa  o quella ideologia. Anche ai nostri tempi, nei quali quasi nessuno osa più definirsi  socialista, in particolare in Italia per il discredito che è legato a questa denominazione per le ultime vicende storiche del partito che da noi al socialismo si richiamava  espressamente e per le conseguenze disumane del sistema socialista sovietico, l’idea di giustizia sociale può continuare ad avere corso, in particolare seguendo ideali umanitari che anche in religione possono trovare fondamento. Piuttosto è l’idea di lotta di classe, quindi di conflitti sociali violenti, che appare meno attuale, perché viviamo in società democratiche in cui, almeno in teoria, le masse hanno gli strumenti per far valere certe pretese con metodi nonviolenti.  E questo anche se il conflitto è latente in ogni società umana: in democrazia esso può però essere gestito pacificamente. Da ciò consegue, però, che la crisi dei processi democratici mette le società a rischio di una ripresa di lotte sociali violente. 
  Una delle prime riforme italiane del Secondo dopoguerra fu quella agraria, che comportò espropriazione dei latifondi improduttivi e la distribuzione delle terre ai lavoratori. Si arrivò alla nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, secondo gli auspici degli autori delManifesto e fu stabilito che a) la proprietà privata dovesse essere regolata in modo da assicurarne la funzione sociale  e di renderla accessibile  a tutti  (art. 42 della Costituzione)  e che b) l’impresa privata non potesse svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della Costituzione). Il sistema di previdenza sociale per la vecchiaia, l’invalidità e la malattia fu esteso a tutte le categorie di lavoratori, anche autonomi e, con la riforma sanitaria del 1978, la maggior parte delle cure divenne accessibile a tutti gratuitamente o a costi molto contenuti. Per il lavoratori dipendenti si stabilirono minimi salariali e disposizioni che li tutelassero da licenziamenti arbitrari, prevedendo una valida tutela giudiziaria dei diritti del lavoro. Fu garantita l’istruzione pubblica, fino ai livelli più elevati, per larghe fasce della popolazione. Riforme analoghe furono attuate anche negli altri stati europei interessati dal processo di unificazione sfociato nell’Unione Europea. In sostanza, le riforme disegnate dagli autori del Manifesto di Ventotene vennero attuate e questo fu un fattore importante di pacificazione delle società europee che si stavano integrando economicamente e politicamente. Tutti i diritti scaturiti da quelle riforme vengono ancora oggi considerati scontati e irrinunciabili dalla maggior parte della gente, e invece non lo sono nella maggior parte del mondo. In origine chi ne proponeva l’istituzione veniva considerato un socialista rivoluzionario. E penso che vi sia ancora chi, leggendo oggi il brano del Manifesto di Ventotene che ho sopra trascritto, si scandalizzerà, leggendo di socialismo. IlManifesto  è un documento molto citato ma poco letto e conosciuto in dettaglio. E in esso il socialismo c’è.
 Il mondo della pace sociale e internazionale europea sta improvvisamente e rapidamente finendo. Questa è la novità dei nostri  tempi. Si stanno nuovamente creando le condizioni per guerre mondiali ed europee. Ad un bambino delle elementari di oggi non sarei in grado di garantire che non dovrà combattere una qualche guerra. E anche la società italiana si è fatta instabile, man mano che le conquiste sociali dei passati decenni vengono messe in discussione. In una nazione ancora tra le più ricche del mondo, sembra che non ce ne sia più per tutti. E’ stato osservato che sono molto aumentate le diseguaglianze sociali, in modo corrispondente e progressivo al decadere dei meccanismi di perequazione economica tra le classi e di protezione di quelle più deboli. L’area del benessere si va restringendo, il lavoro si va facendo insicuro, la protezione per la vecchiaia non è più certa per coloro che oggi sono giovani e tutti per tutti i servizi sociali, in particolare per la sanità, le risorse diminuiscono. Le condizioni di lavoro si vanno avvicinando a quelle dei lavoratori asiatici che finora hanno prodotto le merci di uso comune che in Europa acquistiamo a bassissimo prezzo. Nonostante che il costo del lavoro in Italia sia tra i più bassi in Europa, non vi è una ripresa dell’occupazione, anche per il diffondersi sempre più di processi produttivi automatizzati. Ma il fattore che sta determinando il cambiamento è il mutamento radicale di impostazione politica negli Stati Uniti d’America, la potenza di riferimento per le nazioni europee, finora fortemente integrata economicamente  e politicamente con l’Europa. Negli anni passati gli statunitensi hanno assecondato il processo di unificazione europea, prima in chiave antisovietica e successivamente come fattore di stabilizzazione  europea per gestire la dissoluzione del sistema politico dominato dai sovietici. La riunificazione delle due Germanie, l’assorbimento nell’Unione Europea dei paesi baltici e di quelli ex comunisti fino alla Polonia e alla Romania sono stati gestiti in ambito europeo.  Dalla crisi Ucraina in avanti, quindi dal 2014, la politica statunitense è cambiata, e ancor più sta cambiando in questi giorni. Le due super-potenze che avevano determinato l’ordine politico europeo dal 1945 non sembrano più interessate ad un’Europa unificata e manovrano per indebolirla. Stati Uniti d’America e Russia in Europa sono in rotta di collisione, in particolare sulle questioni delle minoranze russe nelle nazioni baltiche, su quelle dell’Ucraina e su quella del rafforzamento della forza NATO in Polonia. La crisi Ucraina ha dimostrato che guerre internazionali possono ancora essere combattute in Europa, senza scatenare un conflitto autodistruttivo, quindi senza necessariamente impiegare le armi nucleari. 
 In Europa i politici populisti addebitano al processo di integrazione europea mali che derivano invece dalla degenerazione dei sistemi capitalistici. Questo indebolisce ulteriormente la base politica del processo di unificazione europea. Le masse sono spinte a sostenere politiche protezionistiche che sono suicide per nazioni di un continente come quello europeo che ha prosperato solo nelle fasi di integrazione economica. E a ripudiare la moneta unica, l’Euro, con il rischio di ricadere nella situazione, ormai sperimentata solo da chi ha sessanta e più, in cui i risparmi delle famiglie, così come i salari dei lavoratori, venivano rapidamente erosi da tassi di inflazione altissimi, prodotti da spregiudicate politiche monetarie dei governi nazionali.
  Un quadro di crisi globale che, per la prima volta, viene realisticamente e sinteticamente esposto in un documento di un Papa: nell’enciclica Laudato si’. Le soluzioni proposte sono abbastanza simili a quelle pensate da Spinelli, Rossi e Colorni, quindi da socialisti critici, consapevoli sia dei mali dei sistemi capitalistici che di quelli dei sistemi totalitari basati sul comunismo di impronta sovietica.  Ma certamente in quel documento, destinato ad un pubblico globale, l’Europa non c’è. Del resto è scritto da un americano. Occorre quindi, nel processo di formazione all’azione sociale dei laici di fede italiani, integrarlo, in particolare vincendo i sospetti di laicismo che negli ultimi anni hanno guastato il confronto tra il mondo della nostra fede e quello delle politiche europeiste.

32. Impegno religioso e impegno politico: la particolarità italiana


   Nell’enciclica Laudato si’, del 2015, vi è un forte appello all’impegno politico delle persone di fede. Non è un insegnamento nuovo, ma questa volta è inserito in un’analisi realistica di come va il mondo oggi e delle cause dei principali mali sociali.
  E’ dalla metà dell’Ottocento che il papato romano, principalmente per opporsi al processo di unificazione nazionale italiana e poi per reagire ad esso, ha attivato politicamente le masse, costituendo quello che Guido Formigoni, nel libro Alla prova della democrazia - Chiesa cattolici e  modernità nell’Italia del ‘900, Il Margine, 2008, ha definito movimentoguelfo (nel Medioevo erano guelfi  i Comuni che seguivano la politica del papato romano). A lungo quest’ultimo ebbe carattere sovversivo, opponendosi ai partiti di governo dell’epoca, tanto da essere colpito dall’applicazione di leggi sulla sicurezza nazionale.  Quest’azione incise profondamente nell’assimilazione dei principi democratici da parte dei fedeli e favorì la fusione, più o meno tra il 1930 e il 1938, tra ideologia fascista e ideologia del cattolicesimo politico. Il fascismo ebbe in comune con il movimento guelfo  il carattere di opposizione ai principi della politica liberale, l’autoritarismo, il corporativismo anti-socialista, quindi la visione della società come di un corpo vivente in cui le singole parti per il bene comune dovessero accettare una gerarchianaturale di pochi sui molti senza che questi ultimi potessero influire nelle scelte collettive se non eseguendo direttive superiori, una concezione della famiglia di tipo patriarcale maschilista centrata sull’autorità di un padre, modello di tutta l’organizzazione sociale. Entrambi i movimenti erano iniziati come sovversivi, ma entrambi vennero poi accettati dalla classe dominante, che in Italia era costituita da un borghesia imprenditoriale che chiedeva protezione statale  dei propri affari e un trattamento preferenziale nelle commesse pubbliche, in funzione di stabilizzazione dell’ordine sociale. Alla caduta del fascismo, nel 1945, il movimento guelfo rimase come attore politico principale integrandosi con i neo-cattolici democratici di Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti, e loro epigoni. Tutte le fasi della politica democratica italiana dal Secondo dopoguerra fino all’inizio del regno di papa Francesco furono mediate dal movimento guelfo controllato dal papato romano, anche dopo la varie metamorfosi del cattolicesimo democratico dovute alla fine dei regimi di osservanza sovietica nell’Europa orientale, con la contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente.
 All’importanza del ruolo politico delle masse dei fedeli in Italia non è corrisposta un’adeguata azione di formazione alla democrazia. Ci si aspettava, come all’inizio della dottrina sociale   moderna, a fine Ottocento, che i cittadini che erano anche fedeli seguissero fedelmente le direttive di azione sociale diffuse dal papato romano attraverso vari tipi di documenti normativi, limitandosi ad applicarle, con poco margine operativo. I principi del cattolicesimo democratico erano diversi e questo comportò la persistente diffidenza verso i suoi esponenti, i quali, definendosi persone di fede adulte, volevano emanciparsi. Quest’orientamento rimase anche dopo che, a seguito delle decisioni del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si cercò di sollecitare i  laici di fede ad un impegno più intenso, creativo e autonomo, definendo un loro specifico campo d’azione nelle cose temporali, intese come ciò che riguardava la scienza e la politica, nelle quali si riconobbe la necessità di ragionamenti  con un certo margine di autonomia in quanto la teologia era insufficiente a capirle e ad orientarle. Sviluppare questa autonomia fu il problema più critico degli anni del dopo-Concilio. Il movimento per il rinnovamento della catechesi doveva servire anche a questo, ma i risultati furono incerti. Con la lunga fase del papato di Karol Wojtyla tutto in sostanza venne sospeso, in attesa di tempi migliori. E questo anche se nel 1991, con l’enciclica Il Centenario, a cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna, Le novità, del papa Gioacchino Pecci, il papato romano propose alla nuova Europa uscita dalla fine del regime comunista sovietico la via dell’organizzazione democratica.  Una neo-democrazia di osservanza papale per l’Italia? Detta così suona male, ma in effetti è proprio a questo che si pensò. D’altra parte c’erano dei risultati: il cattolicesimo italiano sembrava resistere meglio di altri al processo disecolarizzazione  europeo, quello appunto basato sull’autonomia delle cose temporali, per cui per decidere in politica non si fa appello alla religione né la si considera come elemento di discriminazione. In realtà questo può essere visto non tanto come un successo della religione all’italiana, quanto come un portato della particolare integrazione tra politica e religione che si era prodotta in Italia per la sua particolare storia, per cui le masse cattoliche erano  state indotte a coalizzarsi intorno al papato romano in un processo secolare che è partito da metà Ottocento, nell’opposizione al processo di unificazione nazionale, che è poi proseguito con l’integrazione con il fascismo e poi, in epoca democratica, sotto le bandiere del cattolicesimo democratico. Se si scava un po’ a fondo, interrogando le persone, senza distinzione di età, prova che si è realizzata una tradizione  in questo campo, si può facilmente avere la dimostrazione che l’ideologia sottostante ha risentito poco del processo di assimilazione alla democrazia che i cattolici democratici volevano produrre: riemergono idee caratteristiche dell’integrazione con il fascismo storico. Il modello del buon cattolico  in politica è ancora quello là. Ma influenze sensibili si colgono anche nelle questioni relative alla famiglia. Quell’integrazione riguarda il fascismo mussoliniano maturo, appunto quello sviluppatosi tra il 1930 e il 1938, tra l’epoca in cui le ultime resistenze di parte cattolica ai Trattati Lateranensi del 1929 vennero sopite e l’inizio della legislazione razzista anti-ebraica, che segnò il principio di una presa di distanza da parte del papato romano, non il fascismo rivoluzionario delle origini né quello repubblicano della fine. Le principali resistenze ad un formazione politica alla democrazia nel quadro dell’iniziazione religiosa, per preparare i laici di fede al compito che da loro si attende per promuovere nelle società del loro tempo i valori di fede, sono motivate con argomenti che ricalcano quelli di quel tipo di fascismo. Oggi questo tipo di politica sembra addirittura l’unico in grado di salvare l’Italia dalneo-populismo egoistico che minaccia di dissolverla e che è in linea con il trumpismo  statunitense. E’ venuto a mancare, però, l’ingrediente principale di ogni movimento guelfo: un Papa che voglia essere anche un capo politico populista come lo furono i suoi predecessori. Papa Francesco indica un’altra strada, più difficile, più impegnativa, che è poi il linea con quel grande manifesto  del cattolicesimo democratico che è la Costituzione  La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2°.

33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile

[dal Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]

Sugli istituti costituzionali sarebbe superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi, dell'indipendenza della magistratura - che prenderà il posto dell'attuale - per l'applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di associazione, per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la chiesa e sul carattere della rappresentanza politica: 
a. la Chiesa cattolica continua inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di cui cerca approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e sull'ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l'alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito, per affermare il carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei culti, e dovrà riprendere la sua
opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico; 
b. la baracca di cartapesta che il fascismo ha costruito con l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme alle altre parti dello stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non lo crediamo. Nello stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti.
  Ai sindacati spetteranno ampie funzioni di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe un'anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito del corporativismo potranno e dovranno essere attratti all'opera di rinnovamento, ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell'interesse della classe governante.

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  Gli autori del Manifesto di Ventotene  scrivevano quando ancora l’Italia era dominata dal regime fascista mussoliniano. Quest’ultimo aveva ancora il consenso largamente maggioritario, direi quasi totalitario, dei cattolici italiani. Ogni resistenza era stata vinta non molto dopo la conclusione degli accordi tra il papato romano e il Regno d’Italia dominato del Mussolini, nel 1929, con i Patti Lateranensi. Il regime aveva soppresso ogni libertà democratica e, in particolare, quella sindacale, instaurando, in un processo compiuto tra il 1926 e il 1939, un ordinamento corporativo, nel quale furono istituiti nuovi sindacati come istituzioni dello stato, che venivano proposti come rappresentativi delle varie categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro, per eliminare il conflitto sociale. Queste istituzioni era controllate dal Partito Nazionale Fascista, l’unico partito all’epoca ammesso, dal Ministro delle Corporazioni e da quello dell’Interno: ogni nomina di dirigente, ad ogni livello doveva ottenere l’approvazione ministeriale, inoltre l’organizzazione delle corporazioni era fortemente gerarchica. Nel 1939 la Camera dei deputati venne sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con funzioni solo consultive, nella quale sedevano anche rappresentanti delle Corporazioni. La fine della libertà sindacale avvantaggiò i datori di lavoro, i quali erano la parte dominante nei rapporti di lavoro dipendente e  storicamente si erano associati in sindacati principalmente per reagire al sindacalismo operaio. Nel regime fascista lo sciopero e la serrata, la chiusura di una fabbrica per reagire a moti operai, erano vietati. Storicamente l’affermazione del fascismo era stata favorita da industriali e imprenditori agrari anche come protezione contro il sindacalismo socialista. Il fascismo maturo, quello che fu veramente totalitario in Italia negli anni ’30, restò legato a quegli ambienti sociali.  La contrattazione sindacale fu fortemente limitata dalla parte dei lavoratori, che venivano privati del loro principale strumento di pressione sulle controparti, quello dello sciopero. In contratti nazionali di lavoro divennero norme dello stato e, pur contenendo gli eccessi da parte dei datori di lavoro, ma i lavoratori, nell’ordinamento corporativo fascista, finirono effettivamente, come ricordato nel Manifesto per “irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllavano ogni mossa nell'interesse della classe governante.”
  Anche la prima dottrina sociale della Chiesa aveva proposto il corporativismo come regime preferibile nei rapporti di lavoro, anche se non nella forma attuata dal fascismo, ma come sistema di intese amichevoli tra lavoratori e datori di lavoro ispirate ad equità e umanità. Negli anni ’30, comunque, il regime fascista presentò l’ordinamento corporativo come l’attuazione degli insegnamenti della dottrina sociale, non venendo smentito, ma anzi trovando apprezzamento nella gerarchia cattolica, nel nuovo clima di collaborazione instauratosi con il papato romano dopo la conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi.
  Ecco infatti che cosa si legge nell’enciclica Il Quarantennale, diffusa nel 1931 dal papa Achille Ratti, regnante come Pio 11° in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la  Le novità, del papa Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°:
92. Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche opportuna considerazione. 
93. Lo Stato riconosce giuridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso solo concludere contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non escluse l'esistenza di associazioni professionali di fatto. 
94. Le Corporazioni sono costituite dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte e professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune. 
95. Lo sciopero è vietato; se le parti non si possono accordare, interviene il Magistrato. 
96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti, l'azione moderatrice di une speciale magistratura. Per non trascurare nulla in argomento di tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra richiamati, e con quello che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di un migliore assetto sociale. 
97. Noi crediamo che a raggiungere quest'altro nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio generale, sia necessaria innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la collaborazione di tutte le buone volontà. Crediamo ancora e per necessaria conseguenza che l'intento stesso sarà tanto più sicuramente raggiunto quanta più largo sarà il contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro pratica, da parte, non dell'Azione Cattolica (che non intende svolgere attività strettamente sindacali o politiche), ma da parte di quei figli Nostri che l'Azione Cattolica squisitamente forma a quei principi ed al loro apostolato sotto la guida ed il Magistero della Chiesa; della Chiesa, la quale anche sul terreno più sopra accennato, come dovunque si agitano e regolano questioni morali, non può dimenticare o negligere il mandato di custodia e di magistero divinamente conferitole. 
98. Se non che, quanto abbiamo detto circa la restaurazione e il perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione, secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti dall'egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il crescente numero della moltitudine, i quadri di quell'ordinamento, o perché, traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione. 
99. Resta adunque che, dopo aver nuovamente chiamato in giudizio l'odierno regime economico, e il suo acerrimo accusatore, il socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull'uno e sull'altro, indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne indichiamo il primo e più necessario rimedio, cioè la riforma dei costumi. 
 Il Papa, quindi, esortò i membri dell’Azione Cattolica di allora a collaborare con l’ordinamento corporativo fascista con il  “contributo delle competenze tecniche, professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro pratica”, invito che effettivamente venne accolto.
  Quanto ho sopra sintetizzato, spiega perché gli autori del Manifesto di Ventotene,  al confino nell’isola dopo periodi di detenzione in carcere e nel pieno del regime fascista, nel pensare la nuova Europa che immaginavano sarebbe seguita ai nazi-fascismi europei, dedicarono alla Chiesa cattolica e al corporativismo fascismo quei due periodi che ho sopra trascritto.
  Nella formazione alla fede di solito si sorvola su quei fatti, che oggi sono ritenuti disonorevoli. Si preferisce ricordare il lavoro di progettazione di una nuova democrazia che si compì effettivamente tra ristrettissime elite  dell’Azione Cattolica, in particolare tra gli universitari della FUCI e tra i membri del Movimento Laureati, su impulso  di Giovanni Battista Montini e di altri, l’impegno dei cattolici democratici nella Resistenza tra il 1943  e il 1945, e infine il contributo determinante di questi ultimi, molti dei quali usciti dalle fila della FUCI  e delMovimento Laureati, nella fondazione politica e nello sviluppo della Repubblica democratica e delle istituzioni europee. Ma l’integrazione con il fascismo vi fu effettivamente e fu molto profonda. Ancora oggi se ne risente. Si evidenziano generalmente le incompatibilità tra i due regimi totalitari del fascismo e del cattolicesimo romano, che indubbiamente c’erano dal punto di vista ideologico: tuttavia il fascismo aprì la strada ad un’egemonia della gerarchia cattolica sul popolo italiano alla quale essa da tempo ambiva e per il fascismo la legittimazione come regime provvidenziale  da parte del papato fu determinante nel controllo politico totalitario della nazione. In sostanza: due totalitarismi che si integrarono creando una sorta di dottrina comune che definì il profilo del benpensante. Che cosa sono dieci anni nella storia di una nazione? Eppure gli anni ’30 furono nel bene e nel male fondamentali per ciò che a lungo si produsse dopo. Nel bene perché la Repubblica democratica deriva da un pensiero che in quegli anni si sviluppò, sia in ambito cattolico democratico, sia in ambito socialista che in ambito liberale, le tre componenti di base del nuovo regime democratico post-fascista. Nel male perché il modello fascista del benpensante  creò una persistente e radicata tradizione popolare, per cui, ad esempio, certe cose che si sentono dire ai nostri giorni nei confronti di gente di altre etnie e religioni e su come dovrebbe essere la famiglia risalgono a quel tempo là, anche se se ne è in genere persa consapevolezza.
  C’è infine una importante lezione che ci viene dalla storia: quella italiana degli ultimi due secoli fu potentemente influenzata dalla politica espressa dalla Chiesa cattolica. Essa però, in democrazia, non può più rimanere una faccenda solo da preti. Se ne deve poter discutere ad ogni livello anche negli ambienti religiosi. Ciò  non sempre è agevole, perché la struttura istituzionale ecclesiale è rimasta sostanzialmente feudale e totalitaria. In un’associazione come l’Azione Cattolica si può fare tirocinio di democrazia e, ad esempio, come è ieri è avvenuto nell’Assemblea diocesana, confrontarsi e votare anche su singole frasi di un documento programmatico, ma questo in genere non avviene in una realtà di base come quella parrocchiale, pur essendo prevista qualche sede rappresentativa. Dove di certe cose non si discute e non si fa tirocinio, non si acquista una consapevolezza del proprio ruolo sociale e questo impedisce di resistere alle degenerazioni, di mettere in questione scelte discutibili, di solidarizzare con coloro che vengono ingiustamente emarginati, di bilanciare certi eccessi, di mantenere un pluralismo di opzioni, di chiedere a chi esercita un’autorità di rendere periodicamente e  pubblicamente il conto di ciò che ha fatto e di ciò che progetta di fare. Oggi ci troviamo, in parrocchia, a dover rimediare a problemi che si sono generati anche per questo motivo, per cui molta gente del quartiere, non sentendosi il linea con una certa impostazione, mi pare che si sia allontanata ed ora è tanto faticoso farle riprendere familiarità tra noi.

34. Nuove modernità

[da: Peter Berger, Grace Davie, Effie Fokas, America religiosa, Europa laica? - Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino, 2010, € 18,50]

[pag.192] […] se una società desidera fare uso di certe tecnologie, deve adattare le sue istituzioni e i suoi valori culturali in maniera tale da formare persone che possano impiegare queste tecnologie. Per esempio, il pilota di un aereo moderno non può agire sulla base delle assunzioni metafisiche o degli incantesimi di uno sciamano, almeno finché siede nella cabina di pilotaggio. Ma quando il pilota torna a casa - per esempio in un villaggio primitivo - può fare proprie ogni sorta di idee e pratiche magiche.

  La modernità è un fatto culturale, anche se la parola richiama l’idea di una successione di epoche. Si ha quando una società ritiene di aver fatto dei progressi rispetto ad una sua forma precedente, per cui comprende meglio e più realisticamente i fatti della vita, e innanzi tutto sé stessa, e sviluppa tecnologie più efficaci e potenti. E’ un processo che ha caratterizzato tutta la storia dell’umanità e la gran parte delle culture umane, ma solo dall’Ottocento, in Europa, la modernità è divenuta anche ideologia e non comporta solo una constatazione di come un certo presente si presenta a confronto con un suo passato ma anche propositi per il futuro. Dall’Ottocento essere moderni  significa anche voler essere sempre più moderni. In questa accezione modernità  è strettamente connessa con progresso. L’obiettivo delle società moderne  non è più stata la stabilità, ma il miglioramento incessante sulla via della modernità. Il processo di modernizzazione  ha riguardato anche la religione, che fino alla metà dell’Ottocento ha preteso di sbarrare la strada all’ideologia della  modernità, appunto perché comprendeva anche una modifica del ruolo della religione nella società e una diversa comprensione dei concetti e precetti religiosi. Il Novecento si è aperto in Europa con l’ultima delle persecuzioni religiose attuate nella nostra confessione, che è stata quella contro il modernismo. All’inizio del Novecento, la battaglia della religione contro la modernità scientifica  era già persa, ma era ancora in corso quella contro la modernità sociale, che riguardava concezione e costumi sociali. Un portato di quest’ultima era la democrazia,  contro la quale il papato romano combatté strenuamente in Italia fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando provò a trovare un accomodamento anche in questo campo. Ma il divieto assoluto di modernizzare  rimase in campo religioso e si dovette arrivare agli anni Sessanta del secolo scorso per un primo cambiamento. Bisogna anche dire che la pretesa della modernità di svelare  la natura e la dinamica dei fatti sociali colpiva anche la religione con l’accusa, senz’altro in genere fondata, di essere stata lo strumento con cui le classi dominanti avevano asservito le masse popolari, fascinandole con una serie di miti, di fantasiose narrazioni che si pretendeva descrivessero fedelmente la realtà. Questa prospettazione veniva fatta sia dai democratici liberali, che dominarono il Regno d’Italia dalla sua fondazione nel 1861 all’avvento del fascismo mussoliniano nel 1922, sia dai socialismo, il movimento politico che in Italia si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento: per il socialismo ottocentesco la liberazione sociale delle classi di quelli che stavano peggio avrebbe dovuto comportare anche la liberazione delle masse dai miti religiosi. Quest’ultimo compito fu assunto con molto impegno e rigore dal comunismo sovietico, regime che nel 1917 si impadronì dell’impero zarista russo, e dai regimi che ad esso si ispirarono o da esso comunque vennero imposti.
  Nel corso del Concilio Vaticano 2° si venne ad una nuova sistemazione culturale: la modernità venne accettata ma essenzialmente con fatto laicale, destinato a rimanere in quello che venne definito il  temporale, nel senso di soggetto a rapidi cambiamenti e quindi opposto all’eternità  che caratterizza la dimensione soprannaturale. I laici vennero incoraggiati a trattare degli affari  temporali, sviluppando una competenza autonoma, nel senso che, se dovevano pilotare un aereo di linea, dovevano farlo secondo le regole della fisica e della tecnologia aeronautica, non confidando sulle proprie concezioni religiose e prendendo come riferimento i testi di teologia. Nelle questioni relative al  soprannaturale  ci si propose di introdurre aggiornamenti e, innanzi tutto, di studiare di più e meglio le Scritture. Questo può sembrare un portato della modernità, e lo è effettivamente, ma, per non violare certi divieti religiosi che vennero mantenuti (per cui non ci fu mai un’ammissione di colpe per la persecuzione antimodernista, che oggi a molti appare veramente sconsiderata), si presentò la cosa come un  ritorno alle origini, quindi come un tornare indietro, alla purezza dei primi tempi, quando si era molto più vicini alla prima predicazione del Maestro, per cui si supponeva che si fosse anche più vicini alla verità eterna.  Questo ha configurato una modernità  di tipo religioso, quindi non ostile e incompatibile con la religione, per cui, ad esempio, in Vaticano i Papi mantengono dal 1936 un consiglio di scienziati, che dagli anni ’76 possono essere credenti e non credenti, conta solo la competenza nelle cose temporali.
 Ora, l’atteggiamento dei saggi del Concilio nei confronti della modernità  è diventato comune a tutte le culture che hanno avuto uno sviluppo tecnologico seguendo gli europei. Vale a dire che, come sostengono i sociologi Berger, Davie e Fokas nel libro che ho sopra citato, non c’è più solo una  modernità, in particolare quella europea di tipo antireligioso, ma più  modernità, alcune delle quali democratiche e altre democratiche, alcune delle quali religiose e altre secolarizzate, vale a dire portate a confinare la religione nel privato individuale escludendola nelle scienze e marginalizzandola in società. I menzionati autori citano ad esempio una modernità russa ispirata dall’Ortodossia, una modernità islamica, una modernità indiana hindu e anche una modernità integralmente cattolica che a loro dire è stata realizzata con successo dall’Opus Dei.
  Bisogna dire che il riparto di competenze  stabilito dai saggi dell’ultimo Concilio, un grande progresso  negli anni Sessanta scorsi, non soddisfa più. Voleva essenzialmente ripartire le competenze tra clero e laici, quando già però questa distinzione non era più attuale, in particolare in Italia, dove il clero era stato determinante nei fatti sociali  temporali in particolare a partire dai processi democratici a cavallo tra Ottocento e Novecento,  e i laici avevano messo bocca ampiamente nelle questioni del soprannaturale, vale a dire anche nella teologia, in particolare contestandone il carattere arretrato e antidemocratico.
 A quale modernità facciamo riferimento in parrocchia? Ne vedo proposti più di una, ma in genere non esplicitamente (essere moderni  nella nostra confessione induce ancora un certo sospetto di indisciplina ideologica, se non di vera e propria eresia). Ognuno pensa che la sua sia quella giusta. E anche questa è una situazione moderna, perché la modernità  comprende in genere (non sempre) anche un certo pluralismo, e comunque la modernità europea  nasce come pluralista.

35. Crisi della parrocchia e crisi della politica

  La gente viene molto meno in parrocchia che negli anni ’70  e quando ci viene è restia ad impegnarsi: viene prevalentemente per consumare servizi religiosi. E’ un riflesso della crisi della politica, per cui sono spariti i partiti  che vengono considerati  tradizionali. Si tratta, in realtà, di una metamorfosi della società molto profonda che è stata descritta scientificamente dalla sociologia più recente. La sociologia si propone di capire  la società e di prevederne  gli sviluppi: ai tempi nostri non riesce più  a fare bene il secondo lavoro perché la società evolve in modo molto più caotico di una volta. Mio zio Achille fu un grande sociologo italiano, insegnava all’università di Bologna in un corso avanzato  e, da scienziato sociale, parlava e scriveva molto difficile. Cercò anche di essere un divulgatore e in questo era molto ascoltato. Le sue conferenze erano sempre piene di gente. Scrisse anche alcuni libri per spiegare ciò che accadeva nella società del suo tempo e, in particolare, nella Chiesa. I due sicuramente più importanti furono: Toniolo: il primato della riforma sociale, per ripartire dalla società civile, del 1978,  e Crisi di governabilità e mondi vitali  del 1980, oggi introvabili. Volevano divulgare, ma rimanevano libri  difficili. Mio zio Achille, quindi, era molto più  ascoltato  che letto. Dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni 80, un decennio fondamentale per la trasformazione della società italiana, fu molto  ascoltato in particolare  nel partito principale di governo, la Democrazia Cristiana(era membro del suo Consiglio nazionale), e dal mondo cattolico. Alcune strategie tentate all’epoca per rivitalizzare politica e Chiesa furono sostanzialmente ispirate dal suo insegnamento. Mi pare che l’apice della sua influenza in entrambi i mondi si toccò nel 1986, quando la Festa Nazionale dell’Amicizia, la grande festa annuale del partito, si tenne a Cervia, in Romagna, nella piazza davanti a casa sua. All’epoca consigliava al partito, ma anche ad esempio alla FUCI, di fare grandi raduni nazionali in piccoli paesi, per impregnarli totalmente ed evocare così una realtà di mondo vitale, vale a dire  di quella collettività che dà senso all’esistenza umana. Per lui la crisi di questi mondi vitali  era alla base di quella della società nel suo insieme. La cura per la società era quindi quella di rivitalizzarli. Poi tutto cambiò molto velocemente in Italia, in politica e in religione, e iniziò la situazione in cui ci troviamo adesso e da cui non riusciamo a liberarci, anche se ci causa tanti problemi. La metamorfosi accadde a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90, come manifestazione acuta di una crisi iniziata nei vent’anni precedenti e progressivamente aggravatasi. Il partito si dissolse e la Chiesa cambiò profondamente, seguendo la via proposta da Karol Wojtyla.  Mio zio criticò pubblicamente il vescovo della sua città sulla questione degli immigrati, che il vescovo preferiva fossero cristiani, e fu duramente e lungamente emarginato.  Non fu più ascoltato né letto dalla generalità. Fu ancora letto  dagli scienziati sociali e dagli amministratori che si occupavano di sanità e assistenza agli anziani, il suo campo principale di studio e di azione negli ultimi anni. Per diversi anni amministrò uno dei principali ospedali ortopedici nazionali, il Rizzoli  di Bologna. Fu lui a ideare il CUP, il Centro Unico di Prenotazione, che ebbe in Emilia Romagna la prima organica attuazione. Egli, sostanzialmente, fece poi la fine del grillo parlante nella favola di Pinocchio. Ma la storia gli ha dato ragione. Ho sempre pensato che la sua sorte fosse dipesa dal fatto di non riuscire ascrivere nel linguaggio comune della gente. Ascoltare  non basta, per generare fatti profondi occorre poter leggere. La nostra fede non è, in fondo, basata su Scritture?  In questa prospettiva, potete capire perché mi addolora tanto la dispersione della biblioteca parrocchiale, che, per ciò che so, è stata attuata molto velocemente e per motivi che non ci sono stati spiegati, e mi auguro siano stati buoni motivi. Quando si è insediato il nuovo parroco, già non c'era più.  Probabilmente il fatto  è dipeso da spese indifferibili che occorreva fare o dalla necessità di venire incontro alle molte famiglie in difficoltà che assistiamo, che in questi anni sono sempre più aumentate: in questi casi in famiglia ci si priva anche dei gioielli più cari.  Faccio delle ipotesi: in realtà non è stata fornita alcuna spiegazione.
 Il sociologo Zygmun Bauman fu, invece, molto più letto  che ascoltato. Egli non aveva  con una Chiesa e con un partito un rapporto forte come quello di mio zio Achille. Quindi, se non avesse saputo farsi leggere, non sarebbe stato inteso, perché pochi erano disposti semplicemente ad ascoltarlo. Il suo libro divulgativo fondamentale è Modernità liquida, del 2000, in Italia pubblicato da Laterza, €16,00, che si trova anche in e-book. Lo consiglio come libro di testo ai gruppi di approfondimento dell’impegno politico e sociale che sorgono nelle parrocchie dopo le esortazioni contenute nell’enciclica Laudato si'. In quel libro viene spiegato che cosa sta succedendo nel mondo di oggi e perché sta diventando tanto diverso da quello che c’è stato fino agli anni ’80. Bauman ha scritto molti altri interessanti libri divulgativi, che fondamentalmente approfondiscono i temi di Modernità liquida. Bauman è morto il 9 gennaio di quest’anno, quando era molto anziano, e ora avremmo bisogno di un altro profeta  come lui.
  In un certo senso mio zio Achille  e Bauman svolsero le funzioni che nell’antichità biblica ci si attendeva dai profeti: spiegavano alla gente il senso ultimo di ciò che stava accadendo. In mio zio Achille, rispetto a Bauman, la fede religiosa era una componente fondamentale, in un modo che i suoi discepoli faticano a spiegare, perché li imbarazza. Si pensa infatti che la sociologia, come le altre scienze, debba mantenersi neutrale  rispetto alle idee religiose, ma certamente mio zio Achille in materia religiosa  neutrale non era, con riflessi nella sua attività scientifica e nella sua azione politica, perché egli, oltre che scienziato sociale, fu anche un politico. Questo gli consentì, per molti anni, dal Secondo dopoguerra, quando qui a Roma, con Dossetti, partecipò con molti altri ingegni brillanti, all’ideazione della nuova Repubblica democratica, fino agli anni ’80, quando tutto rapidamente cambiò, di essere molto ascoltato, ma fu anche all’origine della sua dura successiva emarginazione. Perché la nostra Chiesa è ancora strutturata come un sistema totalitario, ed è insofferente del pluralismo e del dissenso, in particolare quando si traduce in lesa maestà  verso la gerarchia, anche se si sforza di non esserlo (questo va riconosciuto, soprattutto parlando di papa Francesco), ma proprio non le riesce. Ma quella, dell'emarginazione o peggio,  è appunto, in genere, la sorte deigrilli parlanti quando parlano  in società e alla società, dicendo ciò che in società non si gradisce udire. Se però il grillo  della storia di Pinocchio  si fosse limitato a scrivere, forse non sarebbe finito acciaccato al muro, perché Pinocchio, incolto e analfabeta, non lo avrebbe letto,  e amen. Si dice infatti che le parole dette volano, mentre quelle scritte rimangono,  ma se uno non sa, non può o non vuole leggerle, queste ultime diventano inutili. Però le rivoluzioni, i cambiamenti radicali, sono guidate da quelle scritte.
  Bauman sostiene che si sta passando da una società di cittadini  ad una di consumatori  e questo sta sfasciando i rapporti sociali, perché ognuno non solo pensa di poter fare da sé, ma è anche spinto a farlo: se non lo fa, non merita. In definitiva era anche l'analisi di mio zio Achille, benché riferita ad una situazione in cui certi fenomeni erano appena gli esordi. L'ideologia consumista distrugge i  mondi vitali che davano e danno senso alle vite delle persone. Quelle vite ora frullano qua e là disordinatamente, andando dietro all'infinita generazione di desideri, mai appagati, come vuole appunto l'ideologia consumista. Un tempo l'appagamento  si trovava nelle relazioni di mondo vitale, ma anche ora è così e infatti è  comune nei consumatori  la sensazione di inappagamento.
  Un cittadino non è solo uno che vive in società, ma è una persona che ha una qualche voce in capitolo in essa e di cui comunque la società non vuole fare a meno. In una società di cittadini  si cerca di ridurre al minimo gli  scarti  sociali. Questo accade sia nelle società democratiche che in quelle totalitarie. Bauman sostiene che questo era legato con il sistema sociale dell’economia, che aveva necessità di riserve umane  in buona salute, da impiegare all'occorrenza nella produzione. La prima legislazione sociale in favore dei lavoratori, quella britannica dell'Ottocento, partì dalle constatazione che la salute dei lavoratori, nelle grandi città industriali, stava rapidamente peggiorando. 
 In una società di  consumatori, sostiene Bauman,   conta solo il credito al consumo  che si ha, per cui ci sono molti scarti umani dei quali non mette conto di prendersi cura perché non hanno credito  e quindi non servono  al sistema. La loro sofferenza umana non conta e li si squalifica perché sono nella condizioni di scarti: si pensa che sia colpa loro l'essere stati scartati, perché non hanno meritato  abbastanza. Si fossero dati da fare, non sarebbero diventati scarti. In realtà è la società che decide chi scartare. Prende dalle persone tutto quello che possono dare,  e finché ne hanno; poi, quando ne rimangono senza, ad esempio perché diventano anziane o malate o tutte e due, le scarta. I poveri che vengono da fuori, gli immigrati economici, come vengono definiti, automaticamente vengono inseriti tra gli scarti. Se si pensa che ognuno debba risolvere da sé i propri problemi,  meritando, la società non deve più occuparsi di lui, diventa inutile  farlo. In un certo senso però diventa inutile anche la stessa società, in particolare nella sua dimensione politica, e, per questo motivo, essa si va sfasciando:  perché non serve più  a certe cose. I problemi sociali allora diventano problemi di sicurezza pubblica, da risolvere con la polizia. Fondamentalmente lo stato, in quest'ordine di idee, un po’ secondo l’ideologia del liberalismo della seconda metà dell’Ottocento, dovrebbe ridursi al minimo, occupandosi di diritto, polizia e di protezione dei confini esterni. Poi ognuno si arrangi come può: meriti.
  Questo sviluppo della società del nostro tempo ha colpito duramente ipartiti.
  Si parla di partito tradizionale, ma in che senso?
  Il modello di partito tradizionale, quello a cui pensiamo istintivamente quando parliamo di partito, è sorto dopo la Seconda guerra mondiale, ed è stato il Partito Nazionale Fascista - PNF. Quest’ultimo aveva preso a modello il partito comunista bolscevico, che nella Russia zarista nel 1917 aveva preso il potere con una rivoluzione violenta. Si trattava, quest'ultimo, di un partito organizzato come un esercito, con una struttura gerarchica molto ben definita e rigida, in cui le direttive scendevano dall’alto. I suoi iscritti erano militanti  fortemente ideologizzati. Il PNF mussoliniano volle essere qualcosa di simile, comprendendo però, obbligatoriamente, tutta la gente, senza più distinzione di classi, di fatto cristallizzando la situazione di dominio di classe esistente. Mussolini si formò politicamente nel socialismo italiano, differenziandosene sempre più alla vigilia della Prima Guerra Mondiale sulla questione della partecipazione alla guerra, a cui si manifestò favorevole dopo che prima era stato di contraria opinione. Egli considerava la partecipazione alla guerra, quindi la milizia  bellica,  il fattore per unificare politicamente e militarmente il popolo italiano, per iniziarlo velocemente alla milizia politica, e vide giusto. Fu infatti proprio dai reduci di quella guerra che scaturì la classe dei primi militanti fascisti.
  Il partito comunista bolscevico, strutturato secondo l’ideologia di Lenin[Lenin, Vladimir Il′ič. - Pseudonimo del rivoluzionario e statista russo Vladimir Il′ič Uljanov( Simbirsk1870 - Gorki, Mosca, 1924 - fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/vladimir-il-ic-lenin/] era un partito di classe. In una società, quella russa zarista, dominata da una vasta classe di nobiltà terriera, quindi in un impero in cui una classe di nobili di fedeltà zarista dominava su masse di contadini, quel partito si proponeva di annientare, anche fisicamente, la classe dominante, affidando il potere a una classe di rivoluzionari di professione che mutasse con la forza il sistema economico, politico e sociale per metterlo al servizio dei bisogni  della classe dominata e, inoltre, di costruire l’uomo nuovo vale a dire di fare delle masse un popolo di militanti  ideologicamente consapevoli, quindi con una coscienza di classe. Questo programma politico comprendeva anche l’annientamento dell’influenza politica della Chiesa ortodossa, che era fortemente federata con il sistema zarista. Il PNF era invece un partito corporativo. La sua ideologia si proponeva di fare del popolo italiano, in tutte le sue componenti,  una massa militante, ma comprendendovi tutte la classi sociali, sia quelle dominanti che quelle dominate, cristallizzando i rapporti di forza che vedevano i pochi dominare sui più. Nell’Italia degli anni ’20 le classi dominanti erano la grande borghesia industriale settentrionale e quella agraria. La nascita del PNF fu appoggiata da entrambe queste componenti. Il corporativismo però non rientrava nell’ideologia socialista dalla quale proveniva Mussolini. In particolare, all'origine il fascismo era anti-borghese. Il corporativismo rientrava invece nell'ideologia della dottrina sociale moderna della Chiesa cattolica, a partire da quella che viene considerata la sua prima manifestazione, l’enciclica  Le Novità, del 1891, diffusa del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, in religione Leone 13°. Il corporativismo della dottrina sociale concepiva la società come un corpo vivente, in cui ognuno aveva una sua funzione importante, in cui quindi tutte le classi dovessero collaborare nell’interesse comune, ciascuna persona però restando al proprio posto, di privilegiata o di non privilegiata,  ricca o  povera. Si considerava impossibile eliminare l'ingiustizia sociale: essa poteva essere solo mitigata (lo si afferma esplicitamente nell'enciclica Le Novità). Il suo modello era il corporativismo medievale, nel quale datori  di lavoro e lavoratori erano inquadrati in corporazioni di mestiere e c’era solidarietà nelle singole corporazioni e tra le corporazioni, nel quadro di un'organizzazione politica cittadina. In questo quadro, nella prima dottrina sociale,  il conflitto sociale veniva dissimulato, il sindacalismo sconsigliato, lo sciopero vietato. Era una visione premoderna e irrealistica, come Giuseppe Toniolo cercò incessantemente di far capire ai Papi della sua epoca, con scarsi risultati. Il fascismo mussoliniano l’adottò come base della sua rivoluzione sociale. La pace sociale venne imposta dal regime, non era frutto di accordi sociali. Comportando la cristallizzazione dei rapporti di classe, venne appoggiata dalla classe dominante, la borghesia italiana di quel tempo. Ma anche le masse speravano in un tornaconto. Ognuno doveva rimanere al proprio posto, ordinatamente: se lo faceva il regime garantiva che ci si sarebbe presi cura di lui, attraverso una vasta rete di istituzioni sociali che effettivamente vennero costituite. Aderire al fascismo, prendere la tessera, e impegnarsi pubblicamente a seguirne l’ideologia, divenne obbligatorio solo per chi volesse impieghi pubblico, per gli altri era raccomandato come segno di buona condotta sociale. In un certo senso l'adesione al fascismo era una specie di assicurazione sociale. Il dissenso, l'eresia, come in religione, venne condannato in quanto metteva a rischio l'integrità del corpo sociale e il benessere  che esso diffondeva attraverso le sue istituzioni. Negli anni ’30 l’adesione degli italiani al fascismo divenne quasi totalitaria e nel 1931, il papa Achille Ratti, regnante come Pio 11°, nell’enciclica sociale Il Quarantennale, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica sociale Le Novità, invitò  i membri dell’Azione Cattolica a collaborare nelle istituzioni corporative fasciste. Si realizzò così, a quell’epoca, una profonda integrazione tra Chiesa cattolica italiana e regime fascista, mediante la quale entrambe le istituzioni si rafforzarono nel popolo italiano. Il PNF divenne il Partito della Nazione, il partito unico degli italiani, ciò che nessun partito del Regno d’Italia era mai potuto essere prima per la strenua opposizione politica del papato romano, che ostacolava la partecipazione dei fedeli cattolici alla politica democratica dello Stato a causa della conquista del Regno pontificio da parte del Regno d’Italia: la cosiddetta questione romana. La controversia fu risolta nel 1929 con una serie di accordi, complessivamente denominati Patti Lateranensi, conclusi dal papa Achille Ratti con il Regno d’Italia rappresentato dal Mussolini. Questo patto tra Chiesa e Stato, così come il fascismo, sarebbe potuto durare molto a lungo, come nella Spagna di Francisco Franco (il suo regime fascista morì con lui, nel 1975) e nel Portogallo di Antonio De Olivera Salazar (il suo regime fascista gli sopravvisse e durò fino al 1974), se il Mussolini fosse rimasto neutrale nella Seconda Guerra Mondiale, come Franco e Salazar. Ma l’ideologia del Mussolini era fortemente bellicista e lo spinse a seguire la Germania nazista e gli altri regimi fascisti suoi alleati nel conflitto. Non potendo realizzare una vera giustizia sociale mediante una più equa redistribuzione di risorse tra gli italiani, il regime si proponeva di predarle ad altri popoli, come altre nazioni europee facevano da tempo. La sconfitta bellica ruppe il patto ideologico con il papato e l'incantamento verso gli italiani. Ma ancora negli anni Cinquanta la gerarchia cattolica simpatizzava per il franchismo spagnolo: se ne lamentava Lorenzo Milani.
  La Chiesa, con il patto concluso nel 1929, recuperò una potente capacità di influenza nel popolo italiano, in particolare attraverso il sistema scolastico. Vide inoltre contrastati duramente i suoi principali nemici dall'Ottocento: il liberalismo e il socialismo atei e, in Italia, atei essenzialmente in quanto anticlericali, ritenendo la Chiesa un ostacolo all'emancipazione delle masse come lo era stata nel processo di unificazione nazionale. 
  Nel dopoguerra, una parte dell’ideologia corporativa fascista, di matrice cattolica, fu inglobata nell’ideologia del partito cristiano (come lo chiamava lo storico Gianni Baget Bozzo), la Democrazia Cristiana.  Da corporativismo divenne interclassimo: in ambiente democratico la collaborazione delle classi non fu più imposta, ma raccomandata e perseguita politicamente, con una serie di riforme sociali e anche mediante l'intervento pubblico nel sistema economico. La Democrazia Cristiana, sulla via della dottrina sociale della Chiesa, pensava ad uno stato che si occupasse dei bisogni di tutti e introducesse norme che prevenissero il conflitto sociale, impedendo forme estreme di sfruttamento in danno della classe lavoratrice. Si parlava di stato sociale, perché l’iniziativa privata e la proprietà dovevano trovare un limite nell’utilità sociale. Poi, con espressione più moderna, di welfare state, stato per il benessere collettivo. Il principio che nei rapporti di lavoro dipendente il lavoratore dovesse avere un’equa retribuzione, non solo proporzionata al lavoro svolto, ma anche sufficiente per mantenere una vita dignitosa per lui e per la sua famiglia. divenne una norma costituzionale, all’art.36 della Costituzione.
  A cavallo tra gli anni ’80  e ’90 la concezione della società come di un corpo organico venne progressivamente abbandonata. Al fondo di ciò c’era l’idea che, nel sistema economico globalizzato, dove occasioni di profitto potevano trovarsi in tutto il mondo e non più solo all'interno di un singolo sistema statale, in un mondo senza più frontiere per il capitale,  non tutti erano veramente necessari per il benessere collettivo. C’era gente di scarto che era solo un peso sociale. Le pensioni agli anziani e l’assistenza sanitaria gratuita alla popolazione cominciarono ad essere considerate solo come un costo. Del resto l’industria dimostrava di poter fare sempre più a meno di mano d’opera e, comunque, di poterla sostituire rapidamente ed efficacemente, spostando produzioni e richiamando altre persone. Il sistema economico non aveva più bisogno di riserve umane  in buona salute. Chi merita, vale a dire trova un modo di cavarsela, ha diritto di sopravvivere, gli altri no: per loro c’è solo l’assistenza caritativa, lasciata al buon cuore degli altri. Chi protesta crea un problema di sicurezza pubblica, da risolvere mediante la polizia. Ma la gente protesta sempre meno: in fondo è convinta della bontà dell’ideologia meritocratica. Solo, spera di essere nella parte che merita, e, se non riesce ad esserlo, se ne vergogna, si colpevolizza. Se lo stato non è più  sociale, non assicura più di occuparsi dei bisogni fondamentali di tutti, perché parteciparvi? La corporazione sociale si è sciolta, ognuno fa per sé. I conflitti di classe che sono sempre rimasti attivi, solo mitigati dalla legislazione sociale sul lavoro che però progressivamente in questi anni si sta cercando di rendere meno pervasiva e incisiva, esplodono liberamente e allora vince il più forte, come nella legge della giungla, animale grosso mangia animale piccolo. I rapporti di lavoro non sono mai paritari: c’è sempre una parte più forte, che è quella dei datori di lavoro, ed è questa che prevale. La politica, in questa situazione, diviene inutile,  così come la società, e lo è anche quella, virtuosa, ancora diffusa dalla dottrina sociale, quella che oggi si vuole approfondire in parrocchia. Ecco perché la gente non viene in parrocchia quando si parla di questi temi. La soluzione? E’ difficile, impegnativa, e riguarda la politica come la parrocchia. Occorre innanzi tutto avere una visione realistica della società e comprendere che los carto  è generato da ristrette classi dominanti; che chi soffre non è che abbia  demeritato, ma soffre perché è vittima della legge della giungla del capitalismo globale; che quando si va da soli alla guerra secondo la  legge della giungla si  è vittima dei più forti; che però una reazione collettiva di massa può ancora cambiare le cose. E, quindi, innanzi tutto, ripeto: conseguire una visione realistica delle dinamiche sociali.
   Un indizio della causa di ciò che accade, dei mali sociali, è nella proposta, che viene da più parti, di un reddito di cittadinanza. Sembra una stranezza, ma molti economisti lo consigliano per tenere in piedi la società. Non solo funzionerebbe, secondo loro, ma occorre per mantenere in piedi il sistema consumistico.  Un tempo lo stato si occupava dei bisogni della gente e distribuiva risorse che poi venivano spese, si traducevano quindi in consumi  di massa;  ora che non se ne occupa più perché ci si è trasformati da cittadini a consumatori e ognuno fa per sé, accade che la platea dei consumatori si riduca sempre di più, man mano che la legge della giungla fa le sue vittime e produce i suoi scarti umani. Così però il sistema rischia di saltare per insufficienza di consumatori: ecco la necessità di crearne artificialmente recuperando una parte degli scarti.  E' una cosa che nelle politiche di governo degli ultimi anni ha prodotto, ad esempio, elargizioni più o meno generalizzate degli "80 euro". Che significa, in fondo? L’attuale sistema economico globalizzato va verso la rovina se lasciato alle sue dinamiche selvagge; va verso l’autodistruzione, perché si occupa di porzioni progressivamente sempre più piccole di popolazione, incrementando le diseguaglianze sociali. Seguendo l’ideologia della globalizzazione non riusciremo più, a lungo andare, a garantire la sopravvivenza sul pianeta di sette miliardi di persone, sempre in aumento. Alla fine il sistema si bloccherà. E’ necessario quindi cambiare, ma non lo si potrà fare che collettivamente, con movimenti di massa, questa volta però sulla base di un cambiamento interiore molto più profondo, non solo politico, ma anche di natura religiosa  perché legato al senso della vita,  come appunto quello che viene raccomandato nella Laudato sì, perché, ed è questa la novità di ciò che accade oggi, ognuno, ogni  consumatore, proprio consumando, si fa carnefice di una parte dell’umanità, rafforzando il sistema che genera la sofferenza sociale e che, infine, travolgerà anche lui. Non si può quindi cambiare il mondo che sta per travolgerci senza cambiare noi stessi, riscoprendo, così facendo, la cittadinanza

36. La religione come problema sociale


   Negli anni ’80 si visse in Italia una fase di riflusso  sociale, di disimpegno e ritorno nell’individualismo personale, fenomeno che coinvolse anche l’aspetto religioso e  il nostro quartiere. Sembrò allora che il pluralismo avrebbe significato dispersione e avrebbe compromesso la residua efficacia della proposta religiosa della parrocchia. Si perse fiducia nelle spiritualità fondate su dialogo e pluralismo: il primo come mezzo per comporre il secondo in una collettività armoniosa.
 Le religioni sono fatti sociali. Servono a dare stabilità alle società.  L’etica che diffondono è molto importante. Per dare stabilità, inglobano una certa dose di fondamentalismo  e di integralismo. Fondamentalismo  è quando si cerca di mantenere costanti alcune concezioni,  integralismo  è quando si cerca di contrastare le tendenza all’assimilazione da parte di altri gruppi. Il compito di dare stabilità  alle società è fondamentalmente politico, e infatti fin  dalle società primitive le religioni hanno svolto un ruolo politico. Fede e politica sono state sempre intrecciate strettamente. Una fede impolitica non può essere considerata una vera religione, ma è essenzialmente magia: quando si crede che certi riti possano cambiare le cose. Le religioni basate sul soprannaturale hanno sviluppato in genere una complicata teologia e una raffinata giurisprudenza, per stabilire ciò che è buono e ciò che non lo è, ma fondandosi su relazioni con l’invisibile sono anche piuttosto duttili e questo consente un loro adattamento alle esigenze politiche dei tempi. Chi può smentire certe affermazioni? Trovano una sponda nell’emotività umana e sono state in un certo senso l’archetipo di ogni persuasore occulto. Le moderne tecnologie di marketing vi si richiamano implicitamente, facendo risaltare la fondamentale irrazionalità delle scelte del consumatore e proponendo quindi immaginifici miti di consumo, vere proprie  religioni  del consumo con proposte salvifiche. Le grandi religioni storiche hanno mantenuto costanti certi connotati, ma si sono profondamente evolute, e ciò è particolarmente vero per la nostra. La nostra religione non è assolutamente quella stessa delle origini. Questo risalta particolarmente se si considerano le concezioni politiche ad essa correlate. Ora, non è la fantasiosa mitologia espressa dalle religioni che in genere costituisce un problema sociale, ma la politica che esse esprimono, e che riguarda, in particolare, le relazioni tra i fedeli e tra questi ultimi e la società intorno. Dall’ultimo conclave ci è venuto nel 2013 un capo, un Padre,  dall’altra parte del mondo, che ci ha portato la voce di comunità tanto diverse da noi, e in particolare di un organismo vivace e innovatore come il CELAM il  Consiglio episcopale latino americana.  Ho letto che l’esortazione La Gioia del Vangelo  e l’enciclica Laudato si’,  contengono molto di un documento molto importante prodotto dal Celam, al termine della Conferenza di Aparecida, nel maggio del 2007.  Su suo impulso si è cominciato a cambiare orientamento negli affari sociali,  proponendo una diversa concezione di politica di ispirazione religiosa, vale a dire quella che non considera più il pluralismo una minaccia, che spinge a eliminare le dogane che controllano i flussi con ciò che è all’esterno degli spazi liturgici e, anzi, invita a uscire fuori delle nostre chiese per intessere nuove relazioni virtuose con la gente intorno, innanzi tutto per partecipare alla risoluzione dei problemi comuni, a partire da quelli minimi, come la fontana di quartiere.  Siamo quindi spinti a ridurre la quota di fondamentalismo  e di  integralismo  delle nostre spiritualità. Ciò non significa creare un mondo dove le posizioni religiose di prima siano ribaltate, i dominatori di un tempo ridotti a sconfitti, e gli sconfitti di un tempo nel ruolo di dominatori, ma creare un’organizzazione  dove non vi siano più dominatori e sconfitti, inclusi ed esclusi. Significa anche essere capaci di relazioni sociali virtuose, amichevoli e solidali tra diversi orientamenti, non quindi al modo delle assemblee condominiali in cui si decide insieme pur detestandosi e aspettando il momento di cancellare l’opinione difforme. Finora abbiamo diffidato gli uni degli altri, non perdendo occasione per azzannarci e aspettando il momento in cui ogni presenza diversa dalla nostra cessasse per estinzione naturale o per ordine dell'autorità; ora, come dice sempre il parroco qui a San Clemente papa, bisognerebbe cominciare a volerci bene.  Questo però richiede, per cominciare, un atteggiamento che in genere è molto difficile da ottenere, in particolare da chi a lungo si è abituato ad avere mano libera: l’autocritica. Senza di questo non si inizia neppure. Senza di questo gli egemoni di un tempo saranno solo gli sconfitti di oggi, aspettando la rivincita al prossimo conclave.  Ci si continuerà francamente a detestare e su questo non può crescere nulla di buono. Il seme cadrà tra le pietre e le spine e il seminatore sprecherà il suo tempo e la sua fatica.

37. Prepararsi a lavorare in società

  Il modello di pratica religiosa che a lungo è prevalso in Italia è stato quello della fede come medicina dell’anima. Ci si metteva a scuola di spiritualità per sanare ferite invisibili. Questa esigenza ha conformato le comunità orientandole verso l’interno. Poiché la dottrina era stata ideata per altri scopi, la si è integrata: analogamente si è fatto con la liturgia. E’ una tendenza molto diffusa nel mondo e, anzi, la possiamo considerare al centro della de-secolarizzazione che è in corso a livello globale. Si riprende ad avere fiducia nelle spiegazioni delle religioni, ma più che altro nelle questioni più personali e nelle relazioni di prossimità.
  In questo quadro irrompe il pensiero di Bergoglio/Francesco che è situato su un altro livello e chiama alla grande politica, a livello globale. La gente in Italia è impreparata a questo, ma non solo in religione, più in generale a livello di cittadinanza. La crisi delle istituzioni statali è proceduta parallela a quella delle istituzioni religiose. Lo ha notato, ad esempio, lo storico Paolo Prodi, morto recentemente, in un articolo dal titolo Senza Stato né Chiesa - L’Europa a cinquecento anni dalla Riforma, pubblicato sull’ultimo numero della rivista bolognese Il Mulino. A questo problema si è cercato di rimediare in Italia con il Progetto culturale  della Conferenza Episcopale Italiana (informazioni su http://www.progettoculturale.it/), per recuperare una capacità di intervento sulle ideologie-guida della società e della politica italiane. Si è cercato anche di recuperare una certa unità tra le visioni di fede correnti nelle nostre collettività, al sevizio dell’universalità delle proposte, e questo ha depresso il dialogo, per cui è sembrato che si preferisse far cadere certe idee dall’alto.
   Nella nostra parrocchia, con il nuovo corso, inaugurato nell’ottobre 2015 con l’arrivo di un nuovo parroco e di una nuova squadra di preti, si è avviato un processo di formazione all’intervento sociale, inaugurato da un incontro con don Luigi Ciotti e proseguito sistematicamente con l’approfondimento di temi della dottrina sociale, innanzi tutto per spiegarne i principi fondamentali. Questa attività ha però coinvolto in prevalenza coloro che, fin da giovani, erano stati abituati a cose come queste, vale a dire persone che oggi sono ultracinquantenni. E, nonostante la vivace animazione degli amici del ciclo Immischiati, quegli incontri sono stati vissuti prevalentemente come conferenze. Non si è potuto verificare il punto di partenza culturale degli uditori, né verificare quanto e come avessero recepito di ciò che era stato loro proposto. Quindi quest’anno si stanno utilizzando tecniche di laboratorio culturale  per stimolare la partecipazione. Ma i più giovani? Innanzi tutto i genitori dei bambini che ci portano i loro figli al catechismo per la prima formazione religiosa? Si tratta delle classi di età più attive, impegnate sul lavoro e in famiglia, quelle che contano di più nell’immagine della società, quelle che hanno ancora le forze per occuparsi dei più giovani e la pazienza per relazionarsi positivamente con i più anziani, insomma le generazioni panino,  strette tra i doveri verso i più giovani e quelli verso i più anziani, i trenta/quarantenni che mandano avanti le cose in società. Sono molto impegnati. La religione come medicina dell’anima, in genere, non è loro utile. Quando si corre tutto il giorno, spesso non si ha tempo per porsi certi problemi. Vivono in una società in cui certi grandi ideali umanitari e le corrispondenti politiche sono a rischio. C’è un senso religioso e politico di tutto questo e in un documento come l’enciclica Laudato si’, del 2015, esso viene sintetizzato. Si tratta di un testo che, in questo, è veramente molto diverso dalla precedente letteratura pontificia. Ma richiede approfondimenti e impegni  di vita: si tratta di risanare la società, e a livello mondiale, non le singole persone.
  La religione come medicina dell’anima si è sentita accusare, fondatamente, di essere solo un anestetico locale, una droga dello spirito, per consolare artificialmente persone in catene sociali, e, in questo senso, di essere, come gli stupefacenti, una specie di veleno. Ma si tratta di una evoluzione piuttosto recente, una manifestazione della  crisi che ha coinvolto anche altre istituzioni pubbliche. Storicamente la religione non si è mai concentrata solo sul privato e sul micro-mondo, tanto è vero che ha cambiato profondamente, non sempre in bene, le società in cui si è immersa. E’ a questo che, in particolare, ci si riferisce quando si parla di radici religiose  dell’Europa.
  Il nostro problema è quello di riavvicinare le classi più giovani al lavoro che si fa in parrocchia in vista dell’impegno in società. Bisogna dire che, per un tempo lunghissimo, non c’è stato più nulla che potesse veramente interessarle. Si riparte quasi da zero. E, innanzi tutto, occorrerebbe organizzare spazi accoglienti per accogliere quella gente. Sotto un certo punto di vista le attrezzature che servono per la pratica religiosa - medicina dell’anima sono molto più semplici e meno costose. Infatti in questo settore si lavora  molto di fantasia. Se invece si vuole proporre visioni realistiche della società, per iniziare a lavorarci sopra, occorre di più. Gli strumenti e i luoghi vanno protetti, occorre stabilire un’organizzazione, che sarebbe meglio fosse auto-organizzazione, e delle regole. Sotto questo profilo in parrocchia si è ancora piuttosto disordinati, e la conformazione delle stanze in cui si svolgono attività collettive cambia continuamente. Abbiamo vissuto una sorta di privatizzazione  delle attività parrocchiali, che è stata corrispondente all’impostazione privatistica  della proposta religiosa, tutta centrata sul micro-personale.

38. I guai politici delle religioni tradizionali

 E’ facilmente dimostrabile che i problemi che le religioni tradizionali incontrano nelle società contemporanee sono essenzialmente politici, quindi relativi alle questioni di governo pubblico. Infatti la gente non manifesta alcun problema nei confronti di ogni tipo di soprannaturale e di ogni sorta di immaginifica spiegazione in merito, ma resiste a chi le vuole imporre che pensare, che dire, che fare, come relazionarsi con gli altri.
  Quello della laicità  è un problema essenzialmente politico e riguarda i rapporti tra una gerarchia e un popolo che le è semplicemente soggetto. Non si manifesta solo in religione. E’ stato osservato che esso si è prodotto anche nelle società post-comuniste dell’Europa orientale.
  Spesso si considera il termine laico  come equivalente a  non credente, ma non è questo il punto. Storicamente, negli ordinamenti religiosi della nostra fede, il laico  è stato costituito dalla presenza di un potere gerarchico esercitato da un clero. Tra il popolo  dei persuasi nella fede religiosa si è prima enucleato un  clero, a cui si è attribuito il governo, la profezia, il sacerdozio, praticamente tutto in religione, e per sottrazione sono risultati i  laici, che progressivamente sono stati assimilati al popolo  intero, come se il clero  non ne facesse più parte.Popolo  erano coloro che erano sudditi  del clero, al mondo in cui lo erano verso i signori feudali. In questo l’organizzazione delle nostre collettività ha imitato quella delle società civili sue contemporanee lungo i quasi due millenni del suo potere religioso. Il problema dellaverità   è venuto a coincidere con quello dei gerarchi della verità: la verità era ritenuta tale perché proclamata da un’autorità religiosa,  dal clero. E’ quest’ultimo che non vuole essere relativizzato, che pretende di rimanere sempre sul campo come assoluto. Quindi il problema del laicato non riguarda tanto la libertà dalla verità, ma da gerarchi assoluti della verità.
  L’impegno sociale ispirato dalla fede, ciò che si fa rientrare nell’idea didottrina sociale, venne proclamato inizialmente come verità di origine gerarchica, al modo degli altri dogmi. In questo campo si è assistito ad una democratizzazione  della produzione di verità sociali, non senza persistenti frizioni: problemi, appunto, politici.
  La scelta religiosa  che l’Azione Cattolica fece negli anni ’60, dopo il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) viene presentata spesso come una presa di distanza dalla politica espressa dal partito cristiano dell’epoca, dalla Democrazia Cristiana. In realtà si è trattato di un processo molto più profondo. Si scelse di liberare il pensiero sociale, e la conseguente politica, dal potere assoluto della gerarchia, che era abituata a organizzare le masse di fedeli a sostegno delle proprie istanze politiche e a richiederne l’obbedienza  politica senza tanti complimenti e discussioni. Al centro di questa processo fu l’autonomia del laicato, che doveva essere conquistata attraverso un’impegnativa opera di auto-formazione. Era questo un modo di vedere che fino ad allora era stato proprio solo delle organizzazioni intellettuali  di Azione Cattolica, FUCI, Laureati, Insegnanti cattolici, medici e giuristi cattolici. E’ stato difficile farne un’esperienza di massa, anche per le resistenze della gerarchia, che si fecero sempre più pressanti sotto il lunghissimo regno religioso del Wojtyla.
  Si tratta di problemi che vediamo ben rappresentati nell’organizzazione della nostra parrocchia. La gerarchia è rappresentata dal parroco e dai preti suoi collaboratori e detiene tutto il potere di tipo amministrativo, che si manifesta nel lavoro della parrocchia come ASL spirituale,  e civile, che riguarda, ad esempio, il patrimonio parrocchiale. Il laicato è rappresentato da vari gruppi  che convivono ignorandosi, in una situazione di precario condominio, che, a ben vedere, riguarda solo le questioni delle loro relazioni reciproche e poco di più. Ma questi gruppi  sono interessati quasi esclusivamente a ciò che accade al loro interno e qui l’autonomia della persona di fede ha poco campo per esprimersi. Si seguono metodi  e orientamenti predefiniti: ogni gruppo ha sviluppato una propria gerarchia, che a volte ricalca quella del clero. Si ripropongono all’interno dei gruppi i problemi dello sviluppo dell’autonomia laicale che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta su scala più vasta. Allora si trattò di suscitare l’autonomia laicale delle masse verso la gerarchia, ora di tratta di suscitarla nei gruppi, che, dal canto loro, hanno sviluppato un assetto piuttosto rigido senza il quale si sentono persi.
  In questa situazione non esiste una vera comunità parrocchiale, come ideologicamente ce se la raffigura. Andrebbe creata avanzando delle pretese verso le formazioni che attualmente dominano la vita parrocchiale. E creando un’organizzazione parrocchiale che consenta una vera partecipazione laicale. Si tratterebbe di suscitarla pazientemente, perché la gente ha perso familiarità al lavoro collettivo e, senza una formazione sufficiente, tutto decade ad assemblea di condominio. In prospettiva dovrebbe potersi riunire un’assemblea parrocchiale, come quella che dovrebbe eleggere alcuni componenti del consiglio pastorale. La gestione patrimoniale della parrocchia dovrebbe essere spiegata ai parrocchiani in una qualche forma, in modo da avere consapevolezza dei relativi problemi. Le offertedovrebbero diventare contributi  e dovrebbe essere spiegato come questi ultimi sono impiegati. Le strutture parrocchiali sono utilizzate con troppa libertà dai gruppi. Bisognerebbe dare delle regole più stringenti e stabilire una cabina di regia in merito.
  Il tutto  è complicato dalla circostanza che si stanno cambiando costumi che si erano cristallizzati in un tempo  lunghissimo, trent’anni, corrispondenti addirittura ad una generazione.
  Al fondo rimane il problema politico: l’impegno sociale che si inizia nuovamente a pretendere pressantemente dai fedeli deve farsi su base di autonomia laicale, per avere una visione realistica della società e per radunare le competenze che occorrono per intervenire. Questo richiedere di imparare a lavorare collettivamente,  E la religione  da sola, e particolarmente certe sue immaginifiche semplificazioni, non basta.

39. Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica

  Una volta raggiunta la consapevolezza che la crisi religiosa e quella politica sono espressione di un medesimo processo,  ci si può anche convincere che le possibili soluzioni siano comuni ad entrambe e che, quindi, lavorando sull’aspetto religioso si possa contribuire anche a migliorare quello politico e viceversa. Questa convinzione è al centro del pensiero espresso nell’enciclica Laudato si’.
  I problemi della nostra organizzazione comunitaria di fede sono analoghi a quelli degli stati. Del resto la nostra è una confessione che ha voluto farsi stato. Viviamo in una situazione di sostanziale anarchia, in cui religioni e stati faticano a mantenere il controllo e, soprattutto, e qui mi riporto al pensiero di Zygmunt Bauman, sono realtà confinate in limiti sempre più ristretti: si sta riducendo di molto la competenza loro riconosciuta negli affari sociali. Ognuno è spinto a fare da sé, a risolvere da sé i propri guai. Vengono progressivamente meno i correttivi sociali agli abusi di posizioni dominanti. Si sta riproponendo una divisione in classi della società: quella di chi domina il nuovo corso e quella, che comprende la grande maggioranza della popolazione della terra, che è dominata. Per chi riesce a entrare nella prima non vi sono più frontiere, per gli altri le frontiere  diventano sempre più impenetrabili.
 Bauman osserva che in un regime di interdipendenza globale, la mobilità, il poter andare dove ci sono le occasioni più favorevoli, diventa  una risorsa quanto mai preziosa ed ambita. La desideriamo per i nostri figli e siamo orgogliosi quando riescono ad andare a studiare o a lavorare all’estero, perché non ci vanno nelle condizioni dei nostri migranti dell’Ottocento, ma come partecipi di una classe privilegiata. Ma il 98% della popolazione mondiale, osserva Bauman, non si trasferisce mai dal luogo di residenza: deve vivere e lavorare dove la sorte l’ha piazzata, accettando quello che c’è. E questo contribuisce al nostro benessere, di privilegiati che vivono in Occidente. Ci consente di acquistare a prezzi molto bassi beni di consumo quotidiano, praticamente tutti.
 Scrive Bauman in La società sotto assedio, del 2002, pubblicato in Italiano da Editori Laterza:
“Allo smantellamento  di tutte le barriere che ostacolano il libero movimento del capitale e dei suoi agenti si abbina l’erezione di nuove barriere, sempre più alte e scoraggianti , contro la massa di persone desiderose di adeguarsi e andare là dove spuntano le opportunità. Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti di «immigrati illegali» e a dispetto di occasionali ed effimere  ondata di orrore e di indignazione provocate dalla vista di «emigranti economici» finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di raggiungere la terra in grado di sfamarli. Il mondo globalizzato è un luogo accogliente e amichevole per i turisti, ma inospitale e ostile per i senzatetto. Ai secondo è vietato seguire il modello instaurato dai primi, che però, in fondo, non ea mai stato progettato per loro. Inoltre, qualora fosse un modello liberamente perseguibile dalle grandi masse anziché un privilegio esclusivo  di una ristretta cerchia di persona ben protette, non arrecherebbe certo quei vantaggi per i quali  è stato vantato dai suoi fautori e beneficiari”(pag.77-78).
 E’ evidente la rilevanza anche religiosa della situazione.
 C’è però difficoltà a capire che, quando insorgiamo contro i migranti economici e vorremmo rispedirli a casa loro, alla fine condanniamo anche noi stessi alla loro sorte, e in particolare i nostri figli. I problemi della gran parte di noi hanno la stessa causa di quelli di quei migranti. Sotto certi aspetti in Occidente beneficiamo dell’economia globalizzata, che infierisce senza più freni pubblici sui lavoratori che producono la gran parte delle cose di nostro uso comune, ma  questo  comporta che anche da noi si segua la stessa linea liberista e che, anzi, una delle residue funzioni degli stati sia proprio questa. “Un obiettivo”, scrive Bauman in quel libro, “probabilmente raggiungibile mediante costanti riduzioni fiscali, riducendo al minimo indispensabile la regolamentazione delle condizioni di lavoro, pacificando o imbavagliando le organizzazioni di difesa dei lavoratori, e soprattutto  non applicando alcuna restrizione al libero movimento in entrate e in uscita del capitale. Nel complesso, la conditio sine qua [=la condizione senza la quale = indispensabile] per rendere felici gli «investitori globali» e indurli a cercare profitti nel proprio paese anziché in  un altro è rendere la condizione dei produttori e consumatori locali il più precaria possibile” (pag.75).
 Che c’entra la parrocchia con tutto questo? C’entra se si riprende contatto con il quartiere, perché in quest’ultimo sono presenti, su scala locale, tutti i problemi che si presentano su scala globale. La dimensione locale fa sì  però che li si possa affrontare con una qualche efficacia tentando soluzioni di prossimità, ad esempio creando o potenziando iniziative solidali, ricreando quella rete sociale di resistenza che in passato ha funzionato molto bene e che ancora si intravvede nel vasto fenomeno del volontariato. Se però la religione viene vissuta prevalentemente come un gioco di ruolo, in comunità confinate e con pretesa di autosufficienza, alla lunga diventa inutile.
  In questi giorni nel gruppo parrocchiale di AC stiamo meditando sulla beatitudine  dei poveri in spirito.  I più ritengono che si debba fare uno sforzo per diventare poveri in spirito, in quanto pensano di aver raggiunto un certo benessere e, essendosi affrancati dalla povertà materiale, di essere soggetti alla tentazione dell’arrogante autosufficienza. Abbiamo letto il messaggio del Papa del 2014 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di quell’anno, che trattava di quel tema e invitava a una conversione verso i poveri, per rimettere al centro della cultura umana la solidarietà. Se riuscissimo a capire che, in realtà, la nostra condizione si sta progressivamente avvicinando a quella di coloro che ci appaiono realmente poveri, e che in definitiva, lasciando le cose andare avanti così, non ci sarà più tanto difficile ammettere di dover mendicare  tante cose che oggi sono ancora affermate come diritti,  questa  conversione  ci verrebbe più facile.
 Mi pare che in parrocchia ci siano due distinte visioni religiose dei problemi che stiamo vivendo collettivamente, a cui corrispondono distinte e divergenti soluzioni. Comporle non sarà facile. Autosufficienza religiosa o espansione solidale nello spirito dellaLaudato si’?


40. La radice politica dei problemi religiosi


  Riporto in fondo il testo delle omelie del Papa nella Veglia Pasquale e nella Messa nel Giorno nella solennità di Pasqua.
  Eccone alcuni brani su cui vorrei iniziare una riflessione:
“[…] se facciamo uno sforzo con la nostra immaginazione, nel volto di queste donne [Maria di Magdala e l’altra Maria nel racconto della scoperta del Sepolcro vuoto in Mt 28,1-8] possiamo trovare i volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città, vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così.
[…]
  Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani.
[…]
Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui.
[…]
 Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive!
E la Chiesa non cessa di dire alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? […] a nessuno di noi viene chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.
[…]
  In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità.
[…]
La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”.
  Nel proporvi queste meditazioni faccio riferimento anche ad idee che sono diffuse in parrocchia. In sintesi: viene rivisitato l’antico ebraismo e in qualche modo ce se ne appropria con una certa disinvoltura. La Pasqua ebraica racconta la storia di una emigrazione di molta gente di una certa etnia: se ne andò perché stava male nell’Egitto dominato dalle dinastie dei Faraoni.  Il problema erano le condizioni di lavoro, è scritto,  che si erano fatte molto dure. Usciti dall’Egitto gli antichi israeliti si trovarono a lungo nella condizioni degli attuali migranti  economici: infatti, stando a quel racconto, erano essenzialmente questo. Non avevano patria, né cittadinanza. Riuscirono a rimanere un gruppo coeso, al modo dei nomadi, che da quelle parti ancora ci sono. Questa condizione durò, secondo la narrazione biblica, fino a quando non si introdussero nella terra di Canaan, dove oggi ci sono lo stato di Israele e l’autorità palestinese, non la terra santa  da noi immaginata, e si conquistarono  militarmente un regno, poi frammentatosi in diverse entità politiche,  che dovettero difendere da molti invasori, infine soccombendo definitivamente ai Romani. Nello sforzo di organizzare regni giusti gli antichi israeliti colsero chiaramente la rilevanza religiosa dei problemi politici e viceversa. Questo è ancora molto attuale, in particolare nel nuovo ordine religioso della nostra fede. Il nostro problema di oggi, politico, non è organizzare uno nostro  stato da qualche parte,  ma di riorganizzare addirittura l’ordine politico mondiale su basi di giustizia: esso ha valenza specificamente religiosa perché riguarda la stessa sopravvivenza dell’umanità. Gran parte dei dominatori del mondo sono ancora oggi della nostra fede. Questo significa che gran parte degli sfruttatori sono gente che segue la nostra religione. L’Italia, una delle maggiori potenze industriali, è tra  i dominatori del mondo. Questo comporta una evidente responsabilità morale verso coloro che stanno peggio, dei quali il Papa ha fatto un elenco nelle omelie che ho citato. Quelli che stanno peggio sono gli  scarti  di un sistema che noi dominiamo. In religione questo è un peccato, ma noi ci autoassolviamo sostenendo che non ci possiamo fare nulla. E, anzi, inventandoci di sana pianta una sorta di neo-identità ebraica, immaginiamo di essere, collettivamente, tra gli sfruttati, tra quelli che stanno peggio e invochiamo la liberazione. Immaginiamo di essere tra gli oppressi perché minacciati dalla contaminazione  del mondo di fuori: quindi ci barrichiamo  culturalmente per respingere l’attacco. In questo modo effettivamente lasciamo fuori quelli che stanno  realmente  peggio e che vengono tra noi chiedendo aiuto. Il Papa allora, e fa semplicemente il suo mestiere, ci rimprovera e noi, convinti sinceramente di essere quello che non siamo, diventiamo insofferenti delle sue tirate d’orecchi e lo invitiamo a non impicciarsi nelle cose della  nostra politica. E’ questo il succo di un discorso fatto in Francia da un’importante personalità. Non abbiamo forse il diritto di  difenderci? Ma il Papa ci ricorda che le migrazioni di quelli che vorremmo respingere, innanzi tutto privandoli della loro dignità umana, e ciò mentre paradossalmente vorremmo immaginarci una dignità  degli animali simile a quella umana che neghiamo agli umani, sono un  sottoprodotto, uno scarto, del sistema economico e politico di cui noi siamo i dominatori e principali beneficiari. Riteniamo in ciò di esercitare il nostro buon diritto  e siamo disposti a far guerra a chi minaccia questo nostro stile di vita. Il Papa parla di nostre ossessionate ricerche di sicurezza   e di smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui  e le critica.
  Ma non è solo il Papa a farci questo discorso. Abbiamo da confrontarci con sempre più grilli parlanti che si rivolgono a noi, pinocchietti  presuntuosi.
  Uno di essi è, ad esempio, Vladimiro Zagrebelsky, nel suo Diritti per forza, Einaudi, uscito quest’anno, anche in e-book, che vi consiglio.
 Scrive Zagrebelsky, nel capitolo Stili di vita:
“Se non si prenderà coscienza della valenza aggressiva dei diritti accampati da chi può nei confronti di chi non può,  nel mondo che ha un solo confine che cinge l’intera umanità, ci si disporrà ad annichilire quanti, vivendo con noi e vicino a noi, ci sottraggono dall’interno quello che consideriamo il nostro spazio vitale e minacciano il nostro «stile di vita». La guerra che un tempo si faceva da parte di eserciti schierati sulle linee delle frontiere esterne, gli uni di fronte agli altri, oggi si trasferisce all’interno, gli uni mescolati con gli altri. Nuove frontiere si creano  ormai dentro un unico spazio globale  in cui non esiste più una «casa del tutto nostra» e una «casa del tutto loro», ma tutti siamo tenuti  a regolarci come in una grande casa comune. Il motto «padroni a casa propria», con il quale si vuole negare l’evidenza delle interdipendenza che ci avvolgono da ogni parte e si vuol respingere al di fuori dei nostri pretesi confini esterni, restaurati con muri, filo spinato, cannoniere e divieti legali, i fattori di con-fusione che caratterizzano il tempo presente, è solo un patetico ricordo d’un tempo che non c’è più.”
 Scrive anche, Zagrebelsky, che il mondo globalizzato  è paradossalmente divenuto più piccolo, non ha più spazi vuoti, come per certi versi fu il ­West  nel Nord-America, dove fuggire  per sottrarsi all’oppressione e a condizioni di vita troppo dure, come fecero gli antichi israeliti, spingendosi nel deserto, abbandonando la civiltà egiziana. L’esercizio di ogni nostro  diritto  ha un’influenza, spesso negativa, da qualche altra parte e la globalizzazione dell’informazioni che lo fa capire chiaramente: nessuno può dirsi all’oscuro. Gli oppressi rivendicano come diritto la giustizia, i dominatori il loro piacere: è chiaro che noi, nell’Italia di oggi, consumatori  innanzi tutto, siamo poco sensibili alla giustizia, perché siamo parte dei dominatori del mondo, gelosi innanzi tutto del nostro piacere. Che ci importa, infatti,  come sono prodotti, con quale sofferenza umana, le merci e i servizi che ci danno piacere e che vogliamo sempre nuovi, pronti all’uso, rapidamente consegnati (le cronache segnalano che nei servizi di logistica, di consegna merci, talvolta si notano ritmi di lavoro particolarmente duri a fronte di paghe molto basse)? C’è un’etica da ricostruire, anche a livello personale. Il nostro peccato sociale  si manifesta innanzi tutto nel modo in cui siamo  consumatori. E’ un tema che mi pare piuttosto trascurato nella formazione religiosa, specialmente in quella dei più giovani, in cui, ad un certo punto, ci si sfianca (inutilmente) sulle faccende del sesso.
  Un altro dei grilli parlanti  di cui dicevo è stato il sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato tanti testi interessanti, scritti con un linguaggio accessibile ai più e che spiegano realisticamente ciò che dobbiamo fronteggiare.
 In La società sotto assedio, del 2002, edito da Laterza, un altro testo che vi consiglio, scrive (pag.223-235):
“La «negazione» è la risposta a domande inquietanti quali «come reagiamo alla nostra consapevolezza dell’altrui sofferenza e cosa implica per noi tale  consapevolezza?»  - le  domanda che sorgono ogni qual volta «persone, organizzazioni o intere società acquisiscono informazioni troppo inquietanti, minacciose o astruse per essere pienamente assorbite o apertamente riconosciute. Questa informazioni vengono quindi in qualche modo represse, ripudiate, accantonate o reinterpretate» [cita Stanley  Cohen].
 […] colui che perpetra il male e colui che lo vede, lo sente, ma non muove un dito, si trovano  […] entrambi esposti  alla possibilità  che le loro azioni (o la loro passività) gli si possano rivoltare contro, essendo state dichiarate inique, esecrabili e punibili […] avvertono quindi  il pressante e perenne bisogno di negare in modo enfatico e perentorio.  […] Esistono molte forme di negazione della colpa (o di rivendicazione d’innocenza, che è la stessa cosa), ma gli argomenti impiegati sono straordinariamente simili […] Ridotti all’osso, tutti gli argomenti rivelano l’uno o l’altro dei due modelli: «Non sapevo», o «Non potevo farci niente». […]  Nell’epoca delle autostrade informatiche, le argomentazioni sull’ignoranza vanno rapidamente perdendo di credibilità […] E così, l’unica scusa che ci resta è «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». […] Lo stratagemma del «non potevo fare di più di quanto ho fatto» dissolve la colpa - penalmente perseguibile- associata alla perpetrazione di un misfatto nella universale e quindi esecrabile  ma non punibile  condizione dell’«essere spettatore». In un mondo fatto d’interdipendenza globale, la differenza tra spettatore e co-esecutore, complice o favoreggiatore dell’azione malvagia diventa sempre più tenue. La responsabilità per le disgrazie umane, per quanto distanti possano essere da chi ne è testimone, non può assolutamente essere negata, almeno in modo convincente. Mai, quindi, la domanda di varianti sempre nuove e più raffinate di negazione di responsabilità del tipo «non potevo farci niente» è stata così grande e in forte espansione come oggi.
[…]
  Praticamente nessuna azione umana, per quanto localmente confinata e compressa, può essere certa che non avrà conseguenze sul destino del resto dell’umanità, così come  qualsiasi segmento dell’umanità non può limitarsi a se stesso e dipendere totalmente solo dalle azioni dei suoi membri.
  Nel commentare il memorabile intervento del 1979 di Edward Lorenz, il cui titolo è da allora diventato una delle frasi più note del secolo scorso («il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado nel Texas”), Roberto Toscano afferma che «oggi la realtà dell’interconnessione globale impone, nelle relazioni internazionali, standard etici che vanno ben oltre un concetto di responsabilità strettamente legalistico. La farfalla non conosce le conseguenze di un suo battito d’ali; essa tuttavia non può escludere quella conseguenza. Passiamo così dalla nozione di responsabilità a un concetto simile, ma più restrittivo, quello di precauzione».
[…]
  La sofferenza «come appare in TV» è nella gran parte dei casi trasmessa attraverso le immagini dei corpi emaciati degli affamati e dai volti sfigurati dal dolore dei malati.  […] Nulla si sa e niente viene detto sulle cause  della carestie e delle malattie croniche. Non un minimo accenno alla costante distruzioni dei mezzi di sussistenza  causata dal commercio  senza frontiere, allo smantellamento delle reti di sicurezza sociale sotto la pressione della finanza senza frontiere, o alla devastazione di terreni e comunità da parte di monoculture imposte dai mercanti di semi geneticamente modificati in stretta collaborazione con i missionari delle motivazioni economiche della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Piuttosto, un pervasivo e persuasivo suggerimento che «ciò che appare in TV» sia un disastro autoinflitto  abbattutosi su tribù distanti, esotiche e «molto diverse da noi» che si sono colpevolmente alienate una decente vita umana. E che - grazie a Dio (o alla nostra prudenza) esistono persone fortunate e di buon cuore come noi, fortunate perché sensibili e industriose, pronte a salvare lo sventurato dalle raccapriccianti conseguenze della sua sfortuna e della sua condotta insensata causata da ignoranza e indolenza.”
 Alla luce delle parole di Bauman, acquista un senso sinistro l’invito, che talvolta si fa in religione, a non pretendere troppo da sé stessi, perché in fin dei conti siamo peccatori ma lassù siamo amati lo stesso così come siamo, perché richiama l’argomento «non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». Il punto non sta nell’amore soprannaturale incondizionato, nonostante la condizione di peccato,  ma nel  non voler  pretendere troppo (abbastanza?) da noi stessi, quindi in questa autolimitazione tutto sommato arbitraria, ingiustificata,  nello sforzo di essere migliori,  per cui poi, in definitiva,  possiamo finire per «abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione»  e «di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita».  Dovremmo proprio, invece,  pretendere un po’ di più da noi stessi. Ad esempio come  consumatori: ci sono modi sbagliati di esserlo. Bisogna prestare più attenzione  a come viene prodotto quello che compriamo, a quanto sofferenza ingloba.  
  Animati dal «palpito del Risorto»  occorre invece, secondo l’esortazione del Papa, divenire “forza trasformatrice, come fermento di nuova umanità”   e “far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui”.  Non è cosa che si consegue magicamente, senza un nostro impegno collettivo. Se non ci spendiamo in questo, e innanzi tutto non ci formiamo a questo, la religione diventa inutile, “la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.”  Dobbiamo lavorare per trasformare la realtà, con un impegno politico che ha anche un senso per la fede,  non cercare di  immedesimarci in un  qualche immaginifico gioco di ruolo a sfondo religioso.

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Veglia Pasquale nella Notte santa
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2017
  «Dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro» (Mt 28,1). Possiamo immaginare quei passi…: il tipico passo di chi va al cimitero, passo stanco di confusione, passo debilitato di chi non si convince che tutto sia finito in quel modo… Possiamo immaginare i loro volti pallidi, bagnati dalle lacrime… E la domanda: come può essere che l’Amore sia morto?
  A differenza dei discepoli, loro sono lì – come hanno accompagnato l’ultimo respiro del Maestro sulla croce e poi Giuseppe di Arimatea nel dargli sepoltura –; due donne capaci di non fuggire, capaci di resistere, di affrontare la vita così come si presenta e di sopportare il sapore amaro delle ingiustizie. Ed eccole lì, davanti al sepolcro, tra il dolore e l’incapacità di rassegnarsi, di accettare che tutto debba sempre finire così.
  E se facciamo uno sforzo con la nostra immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città, vedono crocifissa la dignità.
  Nel volto di queste donne ci sono molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così. E’ vero, portiamo dentro una promessa e la certezza della fedeltà di Dio. Ma anche i nostri volti parlano di ferite, parlano di tante infedeltà – nostre e degli altri –, parlano di tentativi e di battaglie perse. Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani. Così sono, tante volte, i nostri passi, così è il nostro andare, come quello di queste donne, un andare tra il desiderio di Dio e una triste rassegnazione. Non muore solo il Maestro: con Lui muore la nostra speranza.
  «Ed ecco, ci fu un gran terremoto» (Mt 28,2). All’improvviso, quelle donne ricevettero una forte scossa, qualcosa e qualcuno fece tremare il suolo sotto i loro piedi. Qualcuno, ancora una volta, venne loro incontro a dire: «Non temete», però questa volta aggiungendo: «E’ risorto come aveva detto!» (Mt 28,6). E tale è l’annuncio che, di generazione in generazione, questa Notte santa ci regala: Non temiamo, fratelli, è risorto come aveva detto! Quella stessa vita strappata, distrutta, annichilita sulla croce si è risvegliata e torna a palpitare di nuovo (cfr R. Guardini, Il Signore, Milano 1984, 501). Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza trasformatrice, come fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non ha solamente ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui.
  Quando il Sommo Sacerdote, i capi religiosi in complicità con i romani avevano creduto di poter calcolare tutto, quando avevano creduto che l’ultima parola era detta e che spettava a loro stabilirla, Dio irrompe per sconvolgere tutti i criteri e offrire così una nuova possibilità. Dio, ancora una volta, ci viene incontro per stabilire e consolidare un tempo nuovo, il tempo della misericordia. Questa è la promessa riservata da sempre, questa è la sorpresa di Dio per il suo popolo fedele: rallegrati, perché la tua vita nasconde un germe di risurrezione, un’offerta di vita che attende il risveglio.
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive! Ed è ciò che cambiò il passo di Maria Maddalena e dell’altra Maria: è ciò che le fa ripartire in fretta e correre a dare la notizia (cfr Mt 28,8); è ciò che le fa tornare sui loro passi e sui loro sguardi; ritornano in città a incontrarsi con gli altri.
  Come con loro siamo entrati nel sepolcro, così con loro vi invito ad andare, a ritornare in città, a tornare sui nostri passi, sui nostri sguardi. Andiamo con loro ad annunciare la notizia, andiamo… In tutti quei luoghi dove sembra che il sepolcro abbia avuto l’ultima parola e dove sembra che la morte sia stata l’unica soluzione. Andiamo ad annunciare, a condividere, a rivelare che è vero: il Signore è Vivo. E’ vivo e vuole risorgere in tanti volti che hanno seppellito la speranza, hanno seppellito i sogni, hanno seppellito la dignità. E se non siamo capaci di lasciare che lo Spirito ci conduca per questa strada, allora non siamo cristiani.
Andiamo e lasciamoci sorprendere da quest’alba diversa, lasciamoci sorprendere dalla novità che solo Cristo può dare. Lasciamo che la sua tenerezza e il suo amore muovano i nostri passi, lasciamo che il battito del suo cuore trasformi il nostro debole palpito.

Domenica di Pasqua della Resurrezione del Signore
SANTA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica di Pasqua, 16 aprile 2017


  Oggi la Chiesa ripete, canta, grida: “Gesù è risorto!”. Ma come mai? Pietro, Giovanni, le donne sono andate al Sepolcro ed era vuoto, Lui non c’era. Sono andati col cuore chiuso dalla tristezza, la tristezza di una sconfitta: il Maestro, il loro  Maestro, quello che amavano tanto è stato giustiziato, è morto. E dalla morte non si torna. Questa è la sconfitta, questa è la strada della sconfitta, la strada verso il sepolcro. Ma l’Angelo dice loro: “Non è qui, è risorto”. E’ il primo annuncio: “E’ risorto”. E poi la confusione, il cuore chiuso, le apparizioni. Ma i discepoli restano chiusi tutta la giornata nel Cenacolo, perché avevano paura che accadesse a loro lo stesso che accadde a Gesù.
  E la Chiesa non cessa di dire alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? Come mai succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di persone, guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore? Ieri ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un ingegnere e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono spiegazioni per quello che succede a te. Guarda Gesù in Croce, Dio ha fatto questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto: “Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene giù.
  Oggi la Chiesa continua  a dire: “Fermati, Gesù è risorto”. E questa non è una fantasia, la Risurrezione di Cristo non è una festa con tanti fiori. Questo è bello, ma non è questo è di più; è il mistero della pietra scartata che finisce per essere il fondamento della nostra esistenza. Cristo è risorto, questo significa. In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di guardare oltre, il senso di dire: “Guarda non c’è un muro; c’è un orizzonte, c’è la vita, c’è la gioia, c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti, non chiuderti. Tu sassolino, hai un senso nella vita perché sei un sassolino presso quel sasso, quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”.
  Cosa ci dice la Chiesa oggi davanti a tante tragedie? Questo, semplicemente. La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”. Pensiamo un po’, ognuno di noi pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto o che qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane e, semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a noi diciamo “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho scommesso su questo”. Fratelli e sorelle, questo è quello che ho voluto dirvi. Tornate a casa oggi, ripetendo nel vostro cuore: “Cristo è risorto”.

41. Rivolti all’interno o rivolti all’esterno

 Una comunità può essere rivolta al proprio interno o verso l’esterno, verso il mondo intorno. Le sette sono prevalentemente del primo tipo, le religioni prevalentemente del secondo. Una setta religiosa ha quindi, in genere, al suo interno una contraddizione. Di solito quest’ultima viene risolta con l’immaginazione, costruendo un contesto esterno compatibile con l’ideologia di chiusura praticata. L’uscita da una setta religiosa viene spesso vissuta come un ritorno alla realtà.
  Perché si aderisce a una setta? Vengono riconosciuti vari moventi. Le sette propongono, in genere, visioni semplificate ma immaginifiche, quindi accattivanti e coinvolgenti, della realtà: chi ha difficoltà con una società complessa vi può trovare conforto. Inoltre esse sembrano dare protezione a chi vi aderisce, anche se solo fino a che vi aderisce, e l’adesione in genere comporta l’esigenza di sottomissione acritica ad un gruppo di comando, che può essere anche una singola figura dominante o, più spesso e nelle realtà più vaste, una gerarchia più complessa. In una setta si è in genere sottoposti a continue prove di fedeltà. Una setta religiosa della nostra fede sarà, ad esempio, particolarmente legata al racconto biblico del (mancato) sacrificio di Isacco, che inscena appunto una prova di fedeltà, arrivando addirittura (forzando abbastanza il testo biblico) a immedesimarsi in Isacco, piuttosto che in Abramo.
  Esperienze di setta sono state vissute ciclicamente anche nelle nostre collettività di fede. In genere l’educazione alla fede conduce a non dipenderne, perché la nostra religiosità ha una forte connotazione missionaria e dunque rivolta verso l’esterno. Non ci si appaga veramente di esperienze chiuse.
  In un’esperienza  aperta  è centrale la partecipazione, che consente il dialogo  e quindi l’interazione  e il  coinvolgimento  di gente nuova. Non è sufficiente la  fedeltà, occorre collaborare per  capire  ciò in mezzo a cui ci si trova. Più si è, meglio si capisce, perché si guarda il mondo da diversi punti di vista; ma senza il dialogo  le visioni parziali rimangono tali.  Si cerca di essere più aderenti alla realtà, acquisendo competenze  spendibili in società; si fanno progetti per migliorare la convivenza. Aprirsi  comporta il rischio, e la fatica, di confrontarsi  con la complessità. Solo nelle fantasie la realtà si adatta perfettamente alle concezioni ideali. Una religiosità che si propone come cattolica, quindi universale, vive senz’altro nella modalità dell’apertura. Questo comporta di rinunciare al monopolio del bene, che è un intento tipico della religiosità di setta, secondo la quale non vi è vero bene al di fuori di essa.
 In una modalità aperta  si può riconoscere, ad esempio, il valore religioso di una importante conquista civile, come quella del nostroParco delle Valli, evolutosi dal semplice pratone  delle origini a parco pubblico mediante quella che viene definita cittadinanza attiva, quindi una mobilitazione popolare di lungo periodo di cui la gente della parrocchia è stata  componente fondamentale. Questo modo di vedere le cose è al centro delle argomentazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’.
  Una setta può abitare  un luogo senza essere veramente interessata a ciò che c’è intorno, tanto più se è fatta di gente che viene da fuori. Una parrocchia, inviata a gente di un certo posto, non può organizzarsi così, è necessariamente una struttura aperta, interessata alla vita del quartiere. Molti tipi di impegni insieme civili e religiosi sono vissuti, ad esempio, nelle esperienze che si riconoscono in Libera, di cui ci ha parlato l’anno scorso don Ciotti. Un impegno così richiede una presenza molto più costante di quella di un gruppo con connotati di setta, in cui si va solo per i periodici appuntamenti programmati, ad orari fissi,  nel quadro di un certo metodo  e per le prove di fedeltà e verifiche relative. La parrocchia dovrebbe essere una struttura abitata molto più a lungo che, ad esempio, una sede periferica di un’associazione. Dovrebbe promuovere una partecipazione attiva, non da semplici utenti o spettatori. Dovrebbe poter funzionare anche senza copioni  da seguire pedissequamente e senza una vera e propria regia.  Ad esempio, ciò che gli studenti apprendono a scuola dovrebbe poter arricchire la vita parrocchiale e viceversa. Non si dovrebbe entrare in parrocchia come in un parco a tema, un po’ come quando si va nella vicina chiesona vaticana con tutti i suoi pittoreschi personaggi e relative scenografie. Entrando in parrocchia non ci dovrebbe trovare in un altro mondo, ad esempio in un fantasioso neo-mondo  a sfondo biblico, una realtà totalmente ricostruita al modo in cui a lungo lo si è fatto a Cinecittà, ai tempi d’oro del nostro cinema, ma nella realtà verae, in particolare, in una specie di  officina in cui si lavora sulla realtà vera e su gente vera, non con  persone che fanno  qualcun altro, immaginando di esserlo, almeno durante l’incanto.
 Occorre riflettere su queste idealità che ci sono state proposte dai saggi dell’ultimo Concilio:
1. Intima unione della Chiesa con l'intera famiglia umana.
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
[dalla Costituzione pastorale  La gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]

42. L’immaginazione al potere?

  L’immaginazione al potere  fu un’idea diffusa negli anni Sessanta del secolo scorso per reagire contro un sistema sociale che trasformava, e riduceva, l’essere umano ad  ingranaggio. Bisognava immaginarsi  un altro modo di vita sociale e renderlo possibile in concreto con l’impegno politico. Era una concezione fondata sull’ideologia del filosofo tedesco Herbert Marcuse, stabilitosi negli Stati Uniti d’America negli anni Trenta. Fu appunto la realtà statunitense al centro della sua critica sociale: quest’ultima però si adatta bene al modo di vivere dell’intero Occidente, anche di quello attuale, ma in fondo anche dell’intera civiltà globalizzata  contemporanea nelle sue manifestazioni sociali più evolute. Quella critica sociale portava ad organizzare azioni di contrasto, di opposizione, contro sistemi sociali che erano oppressivi in un modo diverso da come lo erano stati storicamente e lo erano i totalitarismi, essenzialmente riducendo l’essere umano  a una sola dimensione, quella appunto che ne faceva un ingranaggio sociale.  Quindi un’immaginazione  come  forza di cambiamento sociale.  L’accusa che si fa ai giovani degli anni Sessanta e Settanta che seguirono l’idea dell’immaginazione al potere  è in genere quella di aver troppo  immaginato  e di aver poco realizzato, ma si tratta di un addebito ingeneroso, perché effettivamente moltissimo cambiò in  Occidente e i problemi vennero quando, dagli anni ’80, l’immaginazione  come critica sociale ebbe sempre meno potere.
  In religione si fa un certo uso dell’immaginazione. Chi lo può negare. I nostri scritti sacri sono pieni di cose del genere. Li abbiamo ricevuti dall’antichità, in cui si ragionava  così. E questo è un punto molto importante: ragionare per visioni  è comunque un ragionare. La nostra più grande teologia si basa su quelle visioni. Ma è cosa che vediamo anche nell’esperienza ebraica, dove lo studio  è centrale e ha prodotto luminose scuole di pensiero su base religiosa, quindi fondate su quel tipo di visioni, che troviamo espresse nella letteratura talmudica  (da Talmud, il testo in cui  è raccolto il frutto di quelle riflessioni, che significa appunto studio).
  Ma immaginando  si può anche prendere congedo dalla realtà e allora non si ragiona più, ma solamente ci si emoziona. La critica più seria alla religione, seria in quanto fondata, è di essere stata una sorta di immaginifica droga  per il controllo sociale delle moltitudini di chi stava peggio, dei dominati sociali. Quindi di essere stata al servizio dei dominatori.  Un’immaginazione che perpetua una condizione di servaggio è cattiva anche dal punto di vista religioso. Se ragioniamo sulle visioni  proposte dai nostri testi sacri possiamo arrivare a convincercene. E’ passata da poco la nostra Pasqua, in cui abbiamo fatto memoria della  liberazione  degli antichi israeliti dal dominio degli antichi egiziani, che li opprimevano con condizioni di lavoro molto dure.
 Grandi maestri della nostra spiritualità, come Ignazio di Lojola e Giovanni della Croce, insegnano ad imparare a fare a meno dell’immaginazione approfondendo la propria esperienza religiosa. Progredire nella fede, allora, è come sbucciare gli strati di una cipolla, togliendo ciò che non è essenziale. Si arriva in una notte oscura, dove si intuisce misticamente il fondamento di tutto. Rimane la convinzione che si tratti di misericordia, compassione, benevolenza universale: questa la grande novità della nostra fede rispetto alle antiche religioni politeistiche.
 Woody Allen, nel suo film Crimini e misfatti, che vi consiglio di acquistare e vedere in DVD, fa dire ad un personaggio che gli antichi ebrei immaginarono  un fondamento amorevole, ma anche con l’immaginazione non riuscirono a concepirlo totalmente  benevolente, tanto che troviamo l’episodio del (mancato) sacrificio di Isacco. Eppure anche nelle scritture troviamo una progressione nella riflessione sul fondamento e in essa la misericordia ha un posto sempre più importante. C’è un’immaginazione che stronca l’inimicizia e le guerre e che possiamo considerare buona, perché  è anche fonte di liberazione.
 Gli antichi greci svalutarono molto l’immaginazione e il sogno. Consigliavano di rimanere aderenti alla realtà. l’essere umano sognante lo vedevano incatenato in fondo ad una caverna, con il volto rivolto verso il fondo, potendo vedere solo ombre della realtà come proiettate  sul muro. Vi è chi vi ha visto l’anticipazione della nostra civiltà dell’immagine.
 L’immaginazione comunitaria   è la più potente di tutte. Insieme si arriva a convincersi dell’inverosimile, si attenua il controllo sulla realtà. Le comunità dispotiche usano l’immaginazione per tenersi stette i propri adepti. Questa non è la via della nostra religione. Lo vediamo, ad esempio, nelle comunità monastiche, dove le regole  dei fondatori sono molto rigide nel cercare di impedire che la comunità prenda il sopravvento. Non tutto ciò che è comunitario, infatti, è conforme alla fede. Ne parlano a lungo le scritture. Bisogna sempre vedere se l’immaginazione conduce a ragionare sulla realtà per modificarla in meglio, per distaccarsene in ciò che in essa non va, per convincersi che un mondo migliore è possibile, o se serve a legare la gente ad un ordine ingiusto.
  A volte le comunità, anche molto coese, non sono un bello spettacolo, soprattutto quando prendono congedo dalla realtà e dalla gente intorno e diventano un universo concentrato solo su sé stesso. Stimolano l’emotività collettiva per separare ed escludere ciò che c’è fuori. Ciò che viene escluso non cambia e il cambiamento che si vive nelle comunità dispotiche è solo immaginario  nel senso di apparente.
  Se si vuole lavorare con efficacia sulla realtà, come oggi siamo spinti a fare anche in religione, occorre in primo luogo esercitarsi sulla critica dell’immaginario  che si impiega. E’ buono o cattivo?

43. Scuola popolare di pensiero sociale

 L’enciclica Laudato si’  può essere utilizzata come libro di testo di una scuola popolare di pensiero e di azione sociale. E’ infatti un documento molto diverso dalla letteratura pontificia precedente del genere dichiarato dal suo autore, l’enciclica appunto. Riassume idee correnti sulle cause delle sofferenze sociali contemporanee, accreditandone alcune. Si rivolge alle masse ed è scritta in lingua corrente. E’ materiale che è naturalmente soggetto a verifica. Non basta che venga da fonte autorevole per condividerne l’impostazione. Quest’ultima non deriva per via di deduzione logica da una dottrina teologica, dalle cose della fede. La fede non ha la soluzione dei mali sociali di oggi, ma può individuarli perché fanno soffrire. La sofferenza è una produzione sociale e può essere corretta. Per capire la via migliore bisogna rifletterci molto su, insieme, collettivamente, in ogni realtà sociale. Questo benché molti pensino che non ci si possa fare nulla perché si tratta di fenomeni su scala troppo grande, addirittura mondiale. E’ appunto la scala su cui ragiona l’autore dell’enciclica.
   Nella Laudato si’  non ci si estenua su polemiche dottrinali che erano ancora  piuttosto evidenti in un altro recente documento del nostro pensiero sociale, l’enciclica Carità nella verità, del 2009. Non si fa una lezione di etica ai  governanti. C’è un appello alla mobilitazione popolare, di massa, per cambiare una società che, a livello mondiale, causa sofferenza e mette a rischio la sopravvivenza dell’umanità. Siamo tutti invitati a cambiare i nostri stili di vita, ma non tanto per meritare  sul piano religioso, quanto  per esercitare una sana pressione su coloro che detengono  il potere politico, economico e sociale, e, così facendo, salvare il mondo, visto come casa comune. Ecco dove se ne parla, un punto molto importante del documento:
206. Un cambiamento negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. È ciò che accade quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. «Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico». Per questo oggi «il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi».
 Riesce difficile alla gente comune  capire chi comanda  il mondo e, dunque, con chi ce la si debba prendere per ciò che genera sofferenza. Si scrive di  potere globale, di  multinazionali,  da noi di  Europa, insomma qualcosa di impersonale che domina le nostre vite senza che si possa fare  nulla per reagire, se non tentare di scamparla volta per volta. Scoppia la rabbia, si scende in piazza per manifestarla, ma nessuno dei potenti che vorremmo trascinare davanti ad una specie di tribunale del popolo accetta di venire a rispondere. Tutti si dicono nelle nostre stesse condizioni. Da ultimo il maligno  viene indicato nel mercato, che dispoticamente può distruggere in un attimo le nostre vite, o, al contrario, trasformarle in meglio a livelli inimmaginabili. Ma il mercato  non ha nulla di soprannaturale. E’ fatto di norme giuridiche e di una massa di attori che si scambia dei beni. Chi compra e chi vende. Anche il lavoro di ciascuno di noi. Sono le norme giuridiche che consentono lo scambio: sono il frutto di accordi internazionali. Negli scambi ci sono parti forti e parti deboli e le parti forti fanno il prezzo. Sono forti le parti che hanno il potere di negare agli altri beni molto ambiti, perché molto necessari o per alti motivi. Questo potere è assegnato dalle norme giuridiche. Ci sono due modi di incidere sulle dinamiche di mercato: cambiare le norme giuridiche e fronteggiare le parti forti con un’azione di massa. Sono le strategie che nella seconda metà del Novecento hanno molto migliorato le posizioni dei lavoratori dipendenti in Occidente. Funzionerebbero certamente anche per correggere il mercato. Ma ci sono due nuovi problemi. Noi stessi, masse di consumatori Occidentali, siamo le parti forti. Dunque dovremmo fare autocritica e cambiare le nostre abitudini di vita, sentirci responsabili per le sofferenze che generiamo. Ma tra le nostre condotte sul mercato e quelle delle multinazionali non ci sono vere differenze; abbiamo interessi comuni e resistiamo nello stesso modo e per gli stessi motivi al cambiamento; rifiutiamo di sentirci responsabili delle sofferenze altrui che generano vantaggi per noi, ad esempio consentendoci di acquistare a prezzi molto bassi merci di uso quotidiano.  Inoltre, poiché i problemi sono globali, dovremmo muoverci su scala globale. Invece pensiamo di risolvere i nostri guai rinchiudendoci, serrandoci dietro antiquate frontiere, in sistemi politici che non hanno la forza di cambiare le norme giuridiche che regolano il mercato.
  Quelli a cui ho accennato sono problemi che hanno un valore anche religioso, perché riguardano la sopravvivenza dell’umanità e la sofferenze di immense moltitudini. Questo richiede di occuparsene anche nelle nostre collettività di fede, arricchendo di molto il nostro pensiero sociale, per comprendere meglio le società del nostro tempo, e ponendo al centro delle nostre attività.  Adesso la dottrina sociale  è un settore complementare, non ritenuto essenziale nella formazione alla fede, in cui infatti se ne parla poco e quindi se ne sa poco. In parrocchia tutto ruota intorno a liturgia, catechesi, carità, i classici settori dell’impegno religioso. Il ramo  “Presenza nel mondo”   è poco curato, in particolare dove si teme molto di esserne contaminati. “Grande è la posta in gioco”, scrive l’autore della Laudato si’, “ e abbiamo bisogno di controllarci e di educarci l’un l’altro” [n.214]E anche: “Tutte le comunità cristiane hanno un ruolo importante da compiere in questa educazione”.
  Quando cominciare? Da molto presto e dai molto piccoli. La realtà del mercato globale  irrompe veramente precocemente nella vita delle persone: quando a un bimbo capita tra le mani il suo primo telefono cellulare egli inizia ad essere un attore nel mercato globale. La prima educazione è quella di capire quanta sofferenza generano le nostre azioni quotidiane e quanta sofferenza inglobano le cose che sono sul mercato ed averne compassione. Sembra facile, ma non lo è, perché ad un certo punto sono necessarie delle rinunce. E’ il nostro stile di vita di Occidentali che va mutato. E’ qualcosa per cui tutti i presidenti statunitensi, senza eccezione, si sono detti disposti a far guerra. In Europa è un po’ diverso perché la classe dirigente della politica europea in genere di certe cose ad un certo punto si è cominciata a vergognare, questo perché in Europa ci si è tanto combattuti per difendere stili di vita contrastanti che divenivano incompatibili perché tenuti a poche distanze gli uni dagli altri, per cui, ad un certo punto, non si poteva proprio fare a meno di eliminare gli altri. Le due guerre mondiali del Novecento ci hanno molto cambiato in Europa, si è iniziato ad avere orrore di tutta quella violenza.  Il processo di unificazione europea è stata l’espressione della concreta volontà di cambiare le cose. Quando lo si è voluto, e finché lo si  è voluto, ci si è riusciti. L’Europa, una politica continentale, ha le dimensioni giuste per incidere sul  mercato globale.
  Di seguito incollo un brano molto importante della Laudato si’. Lavoriamoci un po’ su in questo lungo ponte primaverile che si conclude con la festa della Liberazione, un compito sempre attuale, di generazione in generazione.
Mario Ardigò  - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

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IV. POLITICA ED ECONOMIA IN DIALOGO PER LA PIENEZZA UMANA
189. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo. La produzione non è sempre razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali. La bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino occupazione, e così via.
190. In questo contesto bisogna sempre ricordare che «la protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente». Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano. Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri.
191. Quando si pongono tali questioni, alcuni reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare irrazionalmente il progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a un’altra modalità di progresso e di sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile delle risorse naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che potrà offrire altri benefici economici a medio termine. Se non abbiamo ristrettezze di vedute, possiamo scoprire che la diversificazione di una produzione più innovativa e con minore impatto ambientale, può essere molto redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo.
192. Per esempio, un percorso di sviluppo produttivo più creativo e meglio orientato potrebbe correggere la disparità tra l’eccessivo investimento tecnologico per il consumo e quello scarso per risolvere i problemi urgenti dell’umanità; potrebbe generare forme intelligenti e redditizie di riutilizzo, di recupero funzionale e di riciclo; potrebbe migliorare l’efficienza energetica delle città; e così via. La diversificazione produttiva offre larghissime possibilità all’intelligenza umana per creare e innovare, mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità di lavoro. Questa sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la nobiltà dell’essere umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con audacia e responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo, nel quadro di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è meno dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di rendita immediata.
193. In ogni modo, se in alcuni casi lo sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri casi, di fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di energia e migliorando le condizioni del suo uso».
194. Affinché sorgano nuovi modelli di progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo globale»,  la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e distorsioni». Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia. In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni di marketing e di immagine.
195. Il principio della massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti calcolando e pagando una parte infima dei costi. Si potrebbe considerare etico solo un comportamento in cui «i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future». La razionalità strumentale, che apporta solo un’analisi statica della realtà in funzione delle necessità del momento, è presente sia quando ad assegnare le risorse è il mercato, sia quando lo fa uno Stato pianificatore.
196. Qual è il posto della politica? Ricordiamo il principio di sussidiarietà, che conferisce libertà per lo sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere. È vero che oggi alcuni settori economici esercitano più potere degli Stati stessi. Ma non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale. La logica che non lascia spazio a una sincera preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la preoccupazione per integrare i più fragili, perché «nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».
197. Abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi. Molte volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a causa della corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche. Se lo Stato non adempie il proprio ruolo in una regione, alcuni gruppi economici possono apparire come benefattori e detenere il potere reale, sentendosi autorizzati a non osservare certe norme, fino a dar luogo a diverse forme di criminalità organizzata, tratta delle persone, narcotraffico e violenza molto difficili da sradicare. Se la politica non è capace di rompere una logica perversa, e inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, continueremo a non affrontare i grandi problemi dell’umanità. Una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida.
198. La politica e l’economia tendono a incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e trovino forme di interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e avere cura dei più deboli. Anche qui vale il principio che «l’unità è superiore al conflitto».

44. Ribelli

La Preghiera del ribelle
di Teresio Olivelli, resistente e ribelle italiano (1916-1945)

Signore, che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dominanti, la sordità inerte della massa,
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libera vita,
dà la forza della ribellione.
Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi:
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura.
Noi ti preghiamo, Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocifisso, nell'ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria: sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell'amarezza.
Quanto più s'addensa e incupisce l'avversario, facci limpidi e diritti.
Nella tortura serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa' che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo giustizia e carità.
Tu che dicesti: ``Io sono la resurrezione e la vita'' rendi nel dolore all'Italia una vita generosa e severa.
Liberaci dalla tentazione degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare.
Signore della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore.

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   Il 23 aprile scorso, a Milano, sono stati presentati i due libri con tutti gli scritti di Lorenzo Milani, pubblicati dall’editrice Mondadori nella collana I Meridiani. Chi fu Lorenzo Milani? Potrete saperne di più leggendo la sua biografia sul Web a questo indirizzo: 
http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-milani-comparetti_(Dizionario-Biografico)/ .
  Il Papa, in occasione dell’evento, ha inviato un videomessaggio che trovate trascritto qui sotto.
  E’ importante che un Papa ci abbia invitato ad accostarci al pensiero di Lorenzo Milani  con affetto,  come a quello di un testimone di Cristo e del Vangelo. Tenendo conto che la Chiesa fu la prima persecutrice di Milani, in sostanza emarginandolo proprio per ciò per cui oggi lo addita come testimone di Cristo e del Vangelo. Le si accodarono anche altri. Milani fu processato dalla giustizia penale italiana per un articolo scritto in risposta  all'ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato dalla Nazione del 12 febbraio 1965 (p.11), in cui era scritto che essi consideravano «un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». Lo trovate sul Web a questo indirizzo: 
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm 
Successivamente scrisse anche al Tribunale penale che lo giudicava. Potete trovare sul Web il testo della sua lettera all’indirizzo: 
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_e.htm 
  Perché è importante l'invito del Papa? Perché un Papa impersona la Chiesa di sempre. E’ tradizione che un Papa non ne smentisca esplicitamente un altro, in particolare trattando di personalità religiose e quindi di temi che implicano questioni di fede. Quindi il suo giudizio rimarrà stabile. 
  Il Papa, all’inizio del suo videomessaggio, ha ricordato che Milani scrisse di non volersi mai ribellare alla Chiesa. E ha tenuto a precisare che la sua inquietudine non fu frutto di ribellione. Ed effettivamente Milani accettò di essere confinato in una piccolissima parrocchia di montagna dal suo vescovo. Anche da lassù la sua luce di grande anima  continuò a brillare, ispirando molti nell’indifferenza dei più. 
  Nella Chiesa non si è fatti santi se ci si ribella alla gerarchia. Dunque, il fatto che il Papa abbia attestato che Milani non era ribelle è un buon inizio.
 Ma è tanto grave ribellarsi?
 Oggi è la festa della Liberazione in cui si celebra la Resistenza storica al fascismo italiano e agli occupanti nazisti. Eventi che si produssero come fatti di massa tra il 1943 e il 1945. Anche prima vi furono resistenti, ma erano molto di meno. Gli italiani furono in massa fascisti, guidati a ciò dalla loro Chiesa. 
 Oggi chiamiamo partigiani  quei resistenti di allora, ma loro in genere si definivano ribelli. Qui sopra ho trascritto la Preghiera del ribelle  di uno di loro, il resistente cristiano Teresio Olivelli. Ho incollato anche la pagina di una pubblicazione promossa dall’Olivelli e dai suoi compagni di lotta, intitolata  Il ribelle. “Non lasciarci piegare … dà la forza della ribellione ... ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”, così pregava Olivelli. Celebrando la Resistenza, noi celebriamo una ribellione. Da essa è sorta la nostra Repubblica democratica. La ribellione  non era solo rivolta, ma affermazione di principi umanitari che poi sono stati scritti nella nostra Costituzione, come quello che il lavoro  è al centro del moto di liberazione  delle masse e quindi del nostro sistema politico e istituzionale. Celebrando la Resistenza storica, facciamo anche autocritica perché per gli italiani il fascismo è sempre stato, ed è ancora, una forte tentazione. Il Papato romano non ne è mai stato capace, anche se, oggettivamente, essendosi storicamente federato con il regime fascista ed avendo recepito parti importanti della sua ideologia, doveva considerarsi tra gli sconfitti della guerra di resistenza. Il culmine di questo processo si raggiunse con Achille Ratti e con la sua enciclica Il quarantennale, del 1931, in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dal primo documento della moderna dottrina sociale, l’enciclica Le novità, del 1891. In essa troviamo l’apprezzamento dell’ordinamento corporativo fascista in particolare per “la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti”. 
  C’è un’evidente continuità tra la politica dei clerico-fascisti degli anni Trenta e la persecuzione di Milani trent’anni dopo. Ma nemmeno un Papa, giuridicamente al vertice di tutto, riesce a concedersi un’autocritica in merito. Egli, al tempo della repressione contro Milani, era trentenne e gesuita: ha quindi l’età per farla e i gesuiti dell'epoca furono tra i più duri e implacabili critici del Milani. 
  La persecuzione contro Milani fu uno spreco umano e religioso enorme, del resto nella linea di tanti altri casi come il suo prima di lui. Dobbiamo seguirlo nella sua mansuetudine verso coloro che uno come Aldo Capitini, anche luigrande anima, chiamava, ribellandosi, gerarchi religiosi? Se si fosse ribellato, non gli sarebbe più stato consentito di fare il prete e quindi avrebbe perso i suoi ragazzi. Sarebbe stato un insegnante senza più scolari. Nessuna grande anima  deve essere più posta in questo dilemma. Penso che occorra avere la forza di ribellarsi  a cose come queste. 
“L’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni” scrisse però Milani ai sui giudici:
  A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito.   
  L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.
  Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati.
  E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo ragazzo, un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora).
(carteggio di Claude Eatherly e Günter Anders - Einaudi 1962).
  Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio: «Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco».
  Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per due.
  Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori.
  Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.
  E così siamo giunti a quest'assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.
  A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
  C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole.
  Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto.
  A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico.
   Si fa un esame di coscienza e ci si avvede del tanto conformismo che impronta le nostre vite. Quante cose sarebbero potute andare diversamente se ci fossimo veramente ribellati, non solo a parole. E invece per quieto vivere spesso ci si fa da parte. Così, grandi anime  come il Milani finiscono emarginate. Che sarebbe stato se si fosse insorti in massa, in religione, per il trattamento che gli fu riservato? “Dacci la forza della ribellione!”, bisognerebbe pregare in certi casi.


45. Il Cielo in una stanza


Il cielo in una stanza [di Gino Paoli]

Quando sei qui con me
questa stanza non ha più pareti
ma alberi, alberi infiniti:
quando sei qui vicino a me
questo soffitto viola
no, non esiste più.
Io vedo il cielo sopra noi
che restiamo qui
abbandonati
come se non ci fosse più
niente, più niente al mondo.
Suona un'armonica:
mi sembra un organo
che vibra per te e per me
su nell'immensità del cielo.
Per te, per me:
nel cielo, nel cielo.

  La visione del Cielo è strettamente legata alle comunità in cui si vive. La religione è stata sempre un fatto sociale. Comunità chiuse pensano Cieli piccoli,  a misura loro, e questo anche se cercano di comprendervi l’infinito, tutta la storia umana e la produzione e destino dell’Universo, di tutto ciò che esiste.
  La cultura aiuta a spingersi più in là, nel tempo e nello spazio. Anche le religioni hanno loro culture e, anzi, da un certo punto di vista sono culture. Questo può preoccuparci perché le culture evolvono e ad un certo punto finiscono. Finirà anche la nostra religione? Attualmente è in grande ripresa in tutto il mondo, fuorché in Europa, dove si è raggiunta una visione più realistica delle cose, essenzialmente riuscendosi a fare memoria sincera di una storia più lunga. La nostra religione ha avuto un inizio e poi è divenuta dominante intorno al Mediterraneo e anche un po' più in là in Europa, nel Quarto secolo, quando le religioni più antiche furono vietate per decreto imperiale. Si è sviluppata con molta violenza. Ad un certo punto è divenuta la religione dei dominatori del mondo, deicolonizzatori: si è diffusa nel mondo seguendo il dominio degli Europei. C’è stata un momento in cui non ha avuto bisogno della violenza per affermarsi? Le prime nostre collettività di fede, che ai tempi nostri si vuole idealizzare abbastanza, erano piuttosto bellicose, per ciò che ne sappiamo, e non ne sappiamo molto, a parte le aspre controversie ideologiche che le caratterizzarono fortemente. E poi non è che sia andata molto meglio. La nostra religione però si sta attualmente trasformando in una sua versione più pacifica, che vorrebbe pacificare il mondo e in questo incontra coloro che, anche al di fuori di concezioni religiose, ritengono che questa sia l’unica via della sopravvivenza del genere umano. Del resto questa evoluzione si accorda con la dottrina secondo cui il fondamento di tutto è agàpe, la benevolenza che fa posto a tutti.
   Ma al dunque, nella pratica corrente delle nostre vite, non ci è veramente utile spingere tanto in là, in avanti e indietro, il pensiero, se non per ciò che ci serve per non ripetere errori del passato.  Più utile, ed anzi imprescindibile, è cercare di capire il mondo in cui viviamo, e ciò richiede  di arrivare con lo sforzo di conoscenza molto al di là dei confini del nostro ambiente sociale quotidiano, fino ad abbracciare tutto il globo. La nostra organizzazione religiosa è divenuta veramente mondiale  e ci può aiutare in questo. Nelle università pontificie romane c'è gente di tutta la Terra.  Basta che guardiamo le scritte “made in…”  che sono impresse negli oggetti di uso quotidiano per convincerci che comprendere il mondo ci  è divenuto indispensabile.  Questo significa un particolare impegno di apertura, perché, in un certo senso, il mondo sta arrivando molto vicino a noi, addirittura tra noi nel grande rimescolamento di popoli che stiamo vivendo, un fenomeno epocale e molto significativo. Avere a che fare con persone vere a volte ci sorprende, perché gli altri spesso non sono come ce li immaginiamo, anche in religione. In un certo senso, con gli altri che vengono tra noi, il cielo, il mondo, la storia, l’umanità nel suo complesso, vengono veramente nelle nostre stanze domestiche. Così il nostro mondo cambia e noi con esso. Se si studia la storia si capisce che è sempre stato così e, allora, può prevedersi che così sarà sempre, finché l’umanità avrà una storia. Nulla di nuovo sotto il sole, si dice, ed è anche scritto in un libro biblico: è sapienza molto antica, anche se, facendone personale esperienza, sembra nuova. Ma c’è qualcosa che non cambia, che resterà? Le Scritture ci dicono che sarà l’agàpe: una buona prospettiva per una fede come la nostra che vorrebbe essere fondata sull’agape. Il Cielo, in definitiva, è  agàpe. E tutta la nostra religione ha come scopo di fare entrare il Cielo nelle nostre stanze, quindi molto vicino a noi. E’ immaginifica illusione? Vivendo la religione (non accostandola nella realtà virtuale) si può fare l’esperienza che non lo è. In Italia è più comodo che da altre parti nel mondo. Si esce di casa e c'è la parrocchia. Bastano pochi passi e si è dentro.  Venite e vedete.

46. La “Politica” con la maiuscola


 Nel discorso del Papa all’Azione Cattolica del 30 aprile scorso i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non sorprende, perché la Chiesa cattolica è il principale agente politico del momento. In passato lo è stato il Papato, e non è la stessa cosa. La differenza sta nella collaborazione dei laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è specializzata nel fare proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione Cattolica non ha 150 anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione sociale ispirata dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite dell’Opera dei Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce infatti per iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento d’autorità di quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di quella di democrazia cristiana  che ebbe tra i suoi principali esponenti il prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso  che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento  nelle concezioni religiose. In Italia le correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono sbrigativamente assimilate al modernismo e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina,  quindi negli insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici. Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente  rifiuto del sistema politico democratico liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata, dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti. Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione  dell’Azione Cattolica era fondamentalmente sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione Cattolica si integrò profondamente con il partito cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla politica. In questa stagione, ai politici cattolici  venne riconosciuta dal papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione  delle soluzioni che il papato romano riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti  nelle vicende sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i progredire del tempo, distinte da quelle spirituali, ritenute eterne, vennero sollecitati a collaborare alla definizione dei principi di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio Bachelet, rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera sociale.
  Il nuovo corso durò circa dieci anni. L’autonomia riconosciuta al laicato ne comportò la frammentazione, in particolare tra le correnti democratiche e quelle neo-intransigenti. Non si riuscì mai a far posto, nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo feudale, a laici autonomi. Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella che ho definito era glaciale. Fu il tempo in cui il papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente capitalista. Stavano crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa orientale: si ritenne che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano ebbe una svolta neo-intransigente  per quanto riguarda la politica specificamente italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti  del laicato, piuttosto che dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana, in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali scuole italiane di politica  e di azione sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
  Con il regno di papa Francesco, iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza più considerare principalmente quelli italiani, sono stati esortati ad una nuova azione politica per salvare l’intero mondo dalla rovina. E’ questa la Politica  con la maiuscola, i cui principi sono sintetizzati nell’enciclica Laudato si’ del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse scienze contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si tratta propriamente più di una  dottrina, ma di una prospettazione che, innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo, che comprende anche i principi  di azione sociale,  è il campo proprio dei laici. Le componenti  neo-intransigenti,  mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.

47. La questione democratica

Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d'immortale memoria [il papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°]
[…]
 Del resto, Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d'oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare timore) diffusa nel 1906 dal papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]

  Quando si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un movimento intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa. Fu colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e  nel 1905 della Lega Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia  dei cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più umili della società.
 La diffidenza del papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con molte riserve e vietando denominazioni come democrazia cristiana  e simili,  esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve, la proposta politica di Alcide De Gasperi.
  Negli anni ’60, la svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società civili, consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico nazionale, in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto del 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle definirsi palestra di democrazia. L’accettazione senza riserve della democrazia politica da parte del papato romano risale però solo al 1991, con l’enciclica Il Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°. Non vi sono però molte sedi, in religione, per fare pratica di democrazia, al di fuori dell’Azione Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere, nelle parrocchie. L’impegno politico richiesto oggi del papato romano, la richiederebbe. Infatti non si tratta più di preservare il potere politico del papato in Italia, ma, addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo modello di sviluppo economico. Questo esige di collaborare con altre componenti sociali e lo si può fare solo con metodo democratico, quello basato sul dialogo. E l’esortazione al dialogo è stata al centro del recente messaggio di papa Francesco all’Azione Cattolica.
 Dal papato romano non è mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica, ma essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni religiose. Esso può invece cominciare ad  essere sperimentato dal basso, su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.


48. Informazioni sulla democrazia.

48.1. La democrazia è una forma di organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione alle decisioni comuni.
  Democrazia è una parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos, che significa popolo, e cràtos, che significa potere. Dunque significa il potere del popolo.
  Gli antichi greci furono tra i primi a ragionare sul potere sociale.
  Contrapponevano la democrazia, il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e alla oligarchia, il potere di pochi.
  Anche in democrazia i capi sono pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono essere periodicamente sostituiti.
  Ciò che distingue una democrazia da una oligarchia è dunque la possibilità di critica  sociale e  l’esistenza di regole  che limitino  il potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che coinvolgano i più.
  Schematicamente: in una democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto, perché i pochi che comandano scelgono i loro successori  e quelli che comanda ai livelli inferiori.
  Ogni democrazia, degenerando, tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai processi democratici, così come ogni monarchia.
  Nelle società complesse non esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
  Un altro tipo di oligarchia è la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs, che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra il Cielo e il mondo umano.
  Attualmente la nostra Chiesa è, dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia in cui si stanno sviluppando processi democratici.
  La Repubblica italiana è invece attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che in pochi stati.
  Paradossalmente le monarchie dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni,  e dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici supremi.
  Le monarchie e le oligarchie in genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
  Queste informazioni vengono date di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati nell’enciclica Laudato si’.
48.2  Ogni forma di organizzazione sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei fatti umani, fin da quelli più antichi.
  Possiamo farci un’idea di come si era in tempi molto lontani studiando le società umane meno evolute che ancora ci sono e che verosimilmente vivono come i primitivi.
  L’evoluzione delle società umane è stata favorita dalla conquista del linguaggio e soprattutto da quella della scrittura. Con la produzione di documenti scritti inizia la storia umana. A quel punto le società erano già piuttosto complesse.
  Dal punto di vista biologico discendiamo da esseri viventi sociali. Come erano i nostri progenitori non umani? Si pensa che fossero simili alle scimmie antropomorfe (parola che significa: con  aspetti fisici e movenze simili a quelle umane) che vivono in gruppi sociali dominati da un maschio che si accoppia con molte femmine e al quale altri maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è sociale ha reso possibile organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie di maschi o, più raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di più i cacciatori e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano come andavano le cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle società primitive contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità. Fin dalle origini probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere dominati da potenze non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le deificavano. Per rendersele propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie simboliche, che avevano bisogno di chi compisse le azioni prescritte: questo era il compito dei sacerdoti. I re, le figure dominanti tra gli oligarchi, erano in genere sacerdoti. Fin dalle origini troviamo quindi il potere connesso con la religione. Uno dei compiti degli oligarchi, e i particolare dei re, era quello di risolvere le controversie civili e religiose: questo produsse una giurisprudenza, vale a dire una tradizione nelle decisioni con cui si risolvevano le liti, connotata religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di carattere sacro  perché non in dominio umano, e, nel caso venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione  e il diritto servivano a questo e venivano somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
  Ai tempi nostri si ha talvolta l’idea che le società umani siano radicate  in certi posti.  Questo è uno sviluppo politico  relativamente recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
  Il radicamento  politico su un territorio sviluppò molto la concezione giuridica della proprietà, sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come figure paterne, come  padri  del loro popolo, iniziarono ad agire come proprietari  di esso. Cercarono a lungo un’investitura divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani assumessero anche la carica di pontefice massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice  è uno dei nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo collegato all’ordine universale, cosmico  (cosmo è una parola del greco antico che significa universo). Si ebbe così una sacralizzazione  del potere, che significa appunto collegare il potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei  soprannaturali. Ciò che riguardava le cose soprannaturali era sacro, nel senso di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano accostare il sacro. Sacralizzare  il potere significò volerlo sottrarre alle contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era accentrato in chi deteneva il potere politico  e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione  del potere è ancora molto forte nella nostra organizzazione religiosa.
48.3.  La sacralizzazione  del potere politico spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità  delle istituzioni pubbliche.
  Secondo il  principio della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è vietata ogni discriminazione su base religiosa.
  La sacralizzazione del potere si è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi italiani siamo europei.
   Dal Quarto secolo della nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la teologia della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette in questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici che scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio,  nella regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano,  ridottosi poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,  procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici,  vale a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti dagli imperatori  di Bisanzio. In questo modello c’era un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia, piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
  La sacralizzazione giustifica il potere assoluto, vale a dire  senza limiti, del sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato  politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne politicamente un feudatario (che significa principe  di livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso, come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che, tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione  del potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale  del potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo quadro, un potere  assoluto, per di più attribuito a una sola persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
48.4. Gli esseri umani, nella loro biologia e nella loro psicologia, quindi nel corpo  e nella mente,  e le loro organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto,  mutano continuamente. Se  non se ne è convinti, è inutile procedere con i ragionamenti sulla democrazia, in particolare sulla democrazia come la si concepisce dalla metà del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia serve a far cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione  del potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato  un cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato  quando lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro  si ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato a irrogarle  per conto  della potenza celeste che l’ha delegato.  Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.  Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.  Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere romano di Borgo. Lo definisce stato  in modo non del tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano, regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,  con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato  si legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione  del potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità dello Stato.
   Il principio giuridico, e addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione  del potere politico.
  Storicamente il processo di desacralizzazione  del potere politico iniziò con il finire dell’era storia che definiamo Medioevo  europeo, nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità  europee cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
  Dal Duecento in Europa si svilupparono università degli studi, istituzioni di studi superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione  del potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina Commedia  di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le concezioni dell’epoca sull’universo.
  Il primo regno ad essere colpito dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo in questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento, il papato romano, con la Riforma  promossa del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg, nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione  del potere politico, anche se  ad essere contestata era la sacralizzazione del papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel 1648  nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della Germania.
  Il papato romano, fino ad epoca recente,  reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare  il suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)], del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge (testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html  )

Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.

 In seguito il papato romano usò toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma operando attraverso la mediazione prima di un  partito cristiano desacralizzato, vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato  da poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate, presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
  A conclusione di questo discorso, tengo a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono le religioni che minacciano la pace politica, come talvolta sento sostenere, ma la sacralizzazione del potere politico. Se il potere politico è sacralizzato, allora   viene a dipendere per la propria stabilità da una, e una sola, religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convizioni di fede. Se invece lo  si desacralizza, quindi se trova giustificazioni non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.
48.5. L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di oggi.
  La Questione romana ha travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del suo piccolo  stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali, sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un Regno che nel suo Statuto  proclamava: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!). Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori  di fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri  fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente  il conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale, del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come fece il papa Montini, la natura provvidenziale  della fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia nazionale.
   La lunghissima sacralizzazione  dei poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro  a sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente, dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse indispensabile possedere  uno stato. Nel mondo di oggi non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale, quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per deporre dittatori  o per far cessare crudeltà  e guerre. Un potere che possieda  uno stato non può più essere considerato solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
 Ecco come  la rivista Panorama  ha sintetizzato quella vicenda in un articolo del gennaio 2013:

I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44 ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di Religione , che però i numerosi turisti e italiani che frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia, braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.

 La storia ci ha lasciato in eredità il piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un  parco a tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è come capi di stato  che i papi contano nel mondo, ma come capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere  uno stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano, come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno, certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a sufficienza la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con l’ebraismo o con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni sulla famiglia. Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte altre. Quando si sostiene superficialmente che la Chiesa non è una democrazia  si ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la Chiesa non è uno stato e non dovrebbe nemmeno possederne uno. Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio le parole del Maestro quando disse che il suo Regno non era di questo mondo? Se però,  nel mondo,  si costituiscono delle istituzioni per vivere collettivamente la religione, come possono essere un ente caritativo, un’università, o una parrocchia,  perché non si dovrebbe praticarvi il metodo democratico, che oggi è generalmente riconosciuto come migliore di quello feudale di tanti secoli fa? Perché, si sostiene, altrimenti i valori di fede sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene, su questo si può discutere. Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa intendiamo, ai tempi nostri, per democrazia.
48.6. Per chi scrivo queste brevi note  sulla democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato LeggeScienze politiche  e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’ di più? Ho studiato Legge  e ho approfondito un po’.
  La democrazia, più o meno come noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento, si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota degli adulti maschi  liberiLiberi  da che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne, e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
  La schiavitù non venne posta in questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù dell’affermarsi dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per abolirla vennero trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto che riteniamo di essere stati creati e di essere all'origine  figli di un unico Padre. Da qui l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi democratici contemporanei sorsero in  Europa, nel Settecento, sulla base di concezioni che intendevano liberare  gli esseri umani dalle schiavitù  sociali perché li si considerava uguali  per natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro, ma come ogni figlio  è diverso dal fratello. Il padre tra loro fa parti uguali.
  Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella degli schiavi.
  Benché dette con le parole della teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°  in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane ». Che progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica, solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità, del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero  e giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno detto cose diverse dai papi di un tempo.
  Certo, ai tempi in cui si formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo politico. Parlò di un Regno, ma non di questo mondo.  Il detto che gli è attribuito  “Date a Cesare quel che è di Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di condominio tra poteri nel mondo, quello di Cesare, il nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello  Celeste, ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di  comunione: si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica, e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come propria forma di sacralizzazione  politica, e quindi come ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della nostra era.
48.7.  Gli antichi filosofi greci, ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della democrazia. Vi partecipava una minoranza  della popolazione che praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli che meglio mostravano di saper agitare  le collettività divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di voleri favorire, ma chi arrivava al potere promettendo  di farlo spesso ne abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad esserlo. Al massimo furonoconsiglieri  di chi comandava di volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua  corte, un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri. Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura. Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.  In fondo è storia anche dei nostri giorni.
   In un mondo fatto di tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica, nell’età d’oro dei Comuni  europei, le esperienze di libertà delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare  il proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una situazione naturale e che la ribellione fosse un grave delitto. I poteri assoluti  proposero diverse giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La loro sacralizzazione  li aiutò in questo: si presentarono come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa situazione di temuta anarchia  fu assimilata alla democrazia, dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.
  Quello che ho cercato di sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere  tutti  nei processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento. Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama l’Italia come una repubblica  democratica  fondata sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici sono entrati in crisi.
48.8. Fare memoria del passato serve a organizzare il presente e a progettare il futuro. Parliamo della storia dei processi democratici e, quando costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i problemi che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare là dove ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga e complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i problemi vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo. La democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione in generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita biologica come le società, sono così: sono processi, sia a livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione. Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione culturale  consente di mantenere certe conquiste sociali, scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali molto veloci, a carattere  rivoluzionario, quando tutto improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei quali controlla un settore molto limitato e dialoga  con gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa, le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che nessun imperatore potrebbe governare da sovrano assoluto; la politica è, ai tempi nostri, necessariamente un fatto condiviso da molti, se si vuole che  consenta la sopravvivenza dei più. Questo significa che la via dell’umanità sarà necessariamente quella della democrazia o quella della catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non sarà quella delle origini, quella che aveva come problema principale il conquistare spazi di libertà verso oligarchie dinastiche, perché avrà davanti come problema principale quello di realizzare una pace stabile a livello globale.
  Fare pace  è tanto difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano. Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si finisce per seguire i più svelti di  lingua e di mano, quelli che si fanno meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano piccole corti. Ecco che, allora, si rivive il passato, la monarchia, l’oligarchia, varie forme di democrazia e anche l’anarchia, quando si cerca di fare a meno di regole e di autorità per dare il massimo spazio alla vita degli individui. La società fa soffrire, ma presto si capisce che ci è indispensabile per vivere. Si vorrebbe essere più liberi, ma allo stesso tempo si ci lega agli altri: la vita sembra non avere senso senza di loro. Un tempo lo si capiva fin da piccoli, giocando in cortile con torme di ragazzini: oggi i più piccoli vivono come piccoli monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma alle medie, quando si comincia a uscire da soli, ci si accorge che senza gli altri non si sa che fare. Ma anche che, se con si dà ordine alle proprie esperienze sociali, non si arriva a nulla e ci si limita ad aspettare, con gli altri, che il tempo passi: si è  ragazzi del muretto, come diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo fa.
  La democrazia si impara, non è innata nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri, occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si  è capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa,  è la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la sopravvivenza dell’umanità.
 Nei processi democratici gli individui non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti sociali elementari. In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In religione si è cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia sociale (si è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in dottrina, e questo è qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono quindi caratterizzate da qualcosa di comune che si pensa esserci tra gente che vuole andare d’accordo e  che storicamente è stato riassunto, ad esempio, in un mito, una storia leggendaria su origini comuni, o in certo modo di vivere e di pensare che si pensa scaturire dalle persone come le piante dalla terra. Quindi le società umane nascono come esperienze  definite, con dei  confini, con un dentro  e un fuori,  gli amici dentro, i nemici fuori.  Le democrazie nascono per consentire i più ampi spazi di libertà  dentro una società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per essere liberi  in molti occorre però condividere delle regole, porre dei limiti ad ogni autorità e ad ogni arbitrio individuale, dentro la società. Alle origini le democrazie riguardavano, in ogni società, una minoranza di gente che si riconosceva l’uguaglianza  reciproca. Poi, più recentemente,  si vollero includere nei processi democratici tutti  gli adulti di una società, quelli che stavano dentro  una società. Si scoprì, però, che l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita, perché, a quel punto, non era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale  all’interno  delle società. Ora la sfida è di realizzarlaglobalmente, lì dove prima non si ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori  si poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo furono fondate su questo principio).  Questo perché servono processi democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa ci lega a livello globale  per cui si debba essere solidali  a quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è sempre avvenuto?
  Oggi pensiamo che democrazia  e pace  vadano d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale, nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente connessi. In questo le democrazie   a lungo non si distinsero dai regimi assolutistici che vollero sostituire.
   I nostri orientamenti religiosi oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace globale  che può servire a sorreggere processi democratici pacifici a livello mondiale: questo tema è al centro della predicazione di papa Francesco e si trova sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato si’, del 2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi nostri in religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche civico a livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare  a cambiare il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.
48.9. Qui si ragiona di democrazia per metterla in pratica. Non dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee oggi correnti in religione, questo ha un significato anche per la vita di fede. Questo perché la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è legata a valori, vale a dire a principi di azione sociale, che sono condivisi dalla fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche se non sempre se ne è mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la democrazia viene pensata come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in danno di quei valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio, allora, mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari a pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione, altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con un’autorità superiore che imponga  la pacificazione: nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere  fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale. Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie, le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero  delle cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la storia, si  è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi  sociali proposti in tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi  di regressione  della civiltà.
  Opporre democrazia e valori, come fanno i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto, perché nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più importanti sono sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei processi democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara consapevolezza che le democrazie degenerano se cadono in mano atirannie di maggioranze. Quando i reazionari accusano la democrazia di indifferenza  ai valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori? A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione, dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più o meno così: oggi però la sua struttura  feudale  non fa più gran danno perché  è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici, in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari laicali, e in genere politici,  questa mediazione salta: in fondo essi sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
 Se consideriamo la nostra Costituzione, un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo con maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale, anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico, all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare, partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come  igiene  della razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani. Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente potente.
  Negli anni passati, si sono considerati i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di missione. Non sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho sempre considerata piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli  fossero veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente  e allora  si fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la  vita buona  raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima  solo a quella vita buona  idealizzata. E’ quello che accade anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda. Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile? In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se non da figlio e zio.  E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso. Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale, esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere, di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai tempi nostri sono dei sant'uomini.   A ben vedere, dietro l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite,  c’è la politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici. Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale, del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge  condotto qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono come assolute.  Questo, anche se non sempre se ne è consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori democratici.
  Le Valli all’ultimo censimento avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro, secondo le statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale la nostra fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più. E’ tra questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi parlare di valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non dell’immagine clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti ai lavori: c’è il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni persona però è un processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per la società. Creare le condizioni per un miglioramento collettivo  e individuale è il lavoro delle democrazia come oggi la si concepisce, piena di valori  dei quali le maggioranze non sono arbitre. Non interveniamo sul quartiere da fuori, da colonizzatori, da  missionari. Ne siamo parte, nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di altri, dei più giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e come tutti soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato sia civile che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in società, ma anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in religione. Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori e divenendo cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di fede, personale e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto  riprendere a incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo. Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa.  La società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione. Non si tratta divenire in chiesa  come spettatori. Già proporsi che i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo sviluppando processi democratici, imparando  la democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo  loro concesso per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe  della fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma cercando di espanderla per includervi nuovi  amici.
48.10.  E’ evidente  quello che non ha bisogno di essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario dare spiegazioni o anche giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è così, e basta.
  Il Sole sorge  e tramonta: è evidente. Che però  giri  intorno alla Terra può sembrare, solo  sembrare  evidente, ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare  intorno al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine e astronauti  nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è ben chiaro come e dove evolva  e che fine farà, se poi una fine ci sarà mai ad un certo punto.
   In religione quasi nulla è evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,  perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo senso invisibili,  ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci di immedesimarci  negli altri, nelle loro gioie e nei loro dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in loro soccorso quanto soffrono. La psicologia, le neuroscienze e l’antropologia ne danno spiegazioni, certo, ma si tratta di realtà  evidenti, e, innanzi tutto, proprio di  realtà, appunto perché ne facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi non prevale la natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno significato per la fede  e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe, del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per tutti, nessuno escluso.
  Al di fuori della misericordia, che è evidente nel senso che ho precisato, mi pare che tutto in religione necessiti di complicate, e anzi complicatissime, spiegazioni, delle quali si occupa la teologia. Trattando dell’invisibile, è assai raro che i teologi siano d’accordo tra loro, quindi poi ci sono, più o  meno, tante teologie quanti sono i teologi. Questo però non ci deve scoraggiare, perché quasi tutto, nella vita umana, va così. La scienza, in particolare, funziona così, e per certi versi, nel suo argomentare razionale, conseguente, cercando di accordare conclusioni e premesse, la stessa teologia si è fatta scienza. Questo non significa che non si cerchino accordi, intese. Ci si incontra, si ragiona insieme, e talvolta si riesce ad arrivare a soluzioni condivise. Ma spesso in politica e nella religione che si fa politica, come anche nella politica sacralizzata, quella che strumentalizza la religione, si va per le spicce, non si ha tanto tempo da perdere. Allora si stabilisce che la  verità esce da una certa fonte, sia proclamata da una certa autorità, e che si sia obbligati a convincersene. Storicamente la faccenda della verità appare  strettamente connessa con l’autorità. Che cosa è la verità? E’ un problema filosofico, ma anche politico. La domanda risuona nei racconti della Passione e venne attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea, funzionario di medio livello dell’imperatore romano, quindi, tutto sommato, a un politico. Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta del Maestro. In politica appare inutile discutere  di verità: e se poi ci fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare il campo per questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela. E gli argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti, quelle che gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto, facendone norme giuridiche. Una verità vale quanto gli argomenti che si portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente; un verità normativa, invece,  è una legge e vale quanto l’autorità di chi l’ha imposta e, in politica, quanto  la forza del potere che ha legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo. Anche le religioni impongono verità normative, in particolare nelle società dove i poteri pubblici sono sacralizzati e quindi inglobano la religione nella propria giustificazione sociale. In esse poteri pubblici  e verità normative  si rafforzano a vicenda. Che accade però quando, in società con poteri sacralizzati, una  verità normativa viene posta in questione dai fatti, da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa in genere resistenza, porta i dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non cambiano idea, li condanna. Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato questo il dramma delle scienze  tra gli europei. Dalla fine del Settecento è toccato alla democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito, superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà, si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.
  In democrazia si è tratto insegnamento dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni sacralizzazione del potere: è questo il senso del principio della laicità  dei poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non c’è più, democrazia. Ma, allora, nei regimi democratici, non è che quel principio della laicità dei poteri pubblici  sta virando in fondo verso la verità normativa, e finisce per rientrare in quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che ha a che fare con la morale. Non è come quando in religione si sosteneva che il Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge, altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri politici e religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto degli altri  e ci poniamo dei limiti. Per questo rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare  rendendolo illimitato,  il potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.  Che cosa resta al dunque? Questo resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze interiori evidenti.  E’ evidente, a questo punto, anche il collegamento con la nostra fede.

49. Pensare il popolo

AVERE CORAGGIO E AUDACIA PROFETICA»
Dialogo di papa Francesco con i gesuiti riuniti nella 36a Congregazione Generale (ottobre 2016)

[…]
Dopo la 35a Congregazione Generale la Compagnia ha percorso un cammino nella comprensione delle sfide ambientali. Abbiamo accolto con gioia l’enciclica «Laudato si’». Sentiamo che il Papa ci ha aperto porte per il dialogo con le istituzioni. Che cosa possiamo fare per continuare a sentirci coinvolti in questo tema?
 La Laudato si’ è un’enciclica a cui hanno lavorato in molti, ed era stato chiesto agli scienziati che ci hanno lavorato di dire cose ben fondate e non semplici ipotesi. Ci hanno lavorato molte persone. Il mio lavoro in effetti è stato quello di dare gli orientamenti, fare questa o quella correzione e poi elaborare la redazione conclusiva: questo sì, con il mio stile e riprendendo alcune cose. E credo che bisogna continuare a lavorare, attraverso movimenti, accademicamente e anche politicamente. Infatti è evidente che il mondo sta soffrendo, non soltanto per il surriscaldamento globale, ma per il cattivo uso delle cose e perché la natura viene maltrattata… Bisogna anche tenere presente, nell’interpretazione della Laudato si’, che non è un’«enciclica verde». È un’enciclica sociale. Parte dalla realtà di questo momento, che è ecologica, ma è un’enciclica sociale. È evidente che a soffrirne le conseguenze sono i più poveri, quelli che vengono scartati. È un’enciclica che affronta questa cultura dello scarto delle persone. Bisogna lavorare molto sulla parte sociale dell’enciclica, perché i teologi che ci hanno lavorato si sono preoccupati molto nel vedere quanta ripercussione sociale hanno i fatti ecologici. E questo è di grande aiuto: va vista come un’enciclica sociale.

[testo integrale in
http://www.laciviltacattolica.it/wp-content/uploads/2016/11/Q.-3995-3-DIALOGO-PAPA-FRANCESCO-PP.-417-431.pdf

  Lunedì scorso, al termine della discussione al termine degli incontri di approfondimento sull’enciclica Laudato si’, è stato proiettato il testo che ho trascritto sopra, che è la trascrizione di una parte del dialogo  avuto dal papa Francesco con i gesuiti, nella loro 36° Congregazione generale, svoltasi nell’ottobre 2016.
  Fin dal primo momento il Papa, nel 2015 quando l’enciclica fu diffusa, ha tenuto a precisare che non si trattava solo di un’enciclica che si occupava di ambiente naturale, ma che riguardava la società e il suo sviluppo. Leggendola lo si capisce bene, ma ad uno sguardo frettoloso, come quello che di solito si riserva a quel tipo di letteratura religiosa, non è proprio evidente. Il significato sociale del documento è stato bene inteso, ad esempio, negli Stati Uniti d’America, dai settori della destra politica che rappresentano politicamente le grandi imprese che guadagnano dal modello di sviluppo criticato nell’enciclica: infatti hanno subito intimato al Papa di rimanere nel campo spirituale e, quindi, di farsi gli affari propri, non turbando quelli altrui.
 E’ sempre stato noto che le encicliche sociali  erano state frutto di un lavoro collettivo, e questo fin dalla prima dei tempi moderni, la Le Novità, nel 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°.
 Si legge in Gabriele De Rosa. De Rosa, Il Movimento cattolico in Italia,Bari,Laterza, 1979:
 “La redazione dell’enciclica leoniana fu affidata  a uomini di forte preparazione            filosofica, come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara, autori  rispettivamente del primo e del secondo schema”.
  Tuttavia la particolarità dell’enciclica Laudato si’ è che la cultura religiosa che c’è dentro si è sforzata di non essere auto-referenziale, quindi di fare riferimento a quella scientifica, sia con riferimento alle scienze naturali che a quelle sociali. Si sono volute dire “cose ben fondate e non semplici ipotesi”. Non si tratta quindi della solita invettiva contro lo spirito dei tempi e i mali sociali derivati da non seguire la morale religiosa prescritta, ma di una visione della storia e della società attuale che vuole essere realistica. Un modello di sviluppo basato su un intenso consumo delle risorse naturali sta conducendo il mondo ad una crisi globale. La competizione  lo anima, ma anche lo minaccia. Si compete per avere la parte più grossa della torta e per molti è lotta per la vita, perché a loro non tocca nemmeno ciò che è indispensabile per sopravvivere. Per molti altri la vita torna ad essere solo fatica, come nell’Ottocento, ai tempi della rivoluzione industriale. A quell’epoca la condizione di chi stava peggio migliorò con lotte sociali di massa, nel confronto tra le classi, che in Occidente portò nella seconda metà del Novecento allo stato sociale, in cui le istituzioni pubbliche, rette democraticamente, si assunsero il compito di riequilibrare le parti. Dal 1990, con lo sviluppo della globalizzazione  dell’economia mondiale, sorretta da una rete giuridica di accordi internazionali, quel modello è stato superato. Questo perché la forza esprimibile nello scontro sociale da chi sta peggio è molto diminuita: l’azione di massa per i diritti civili e sociali si è fatta meno efficace. Era basata su masse di produttori, essenzialmente di operai, che rivendicavano parti più giuste. Chi controllava le imprese ne aveva bisogno, non poteva farne a meno nella produzione, e quindi, alla fine, veniva  a patti. Nel mondo di oggi può limitarsi a produrre da un’altra parte del mondo, dove le lotte sono meno efficaci o addirittura vietate, come nella Repubblica popolare di Cina di oggi, da cui proviene molta parte dei nostri oggetti di uso quotidiano. In Occidente ormai si conta di più come consumatori che come lavoratori, ha osservato il sociologo Zygmunt Bauman. Il lavoro si è molto svalutato  e infatti viene retribuito sempre meno. Come consumatori si è però fascinati dalle tecniche di psicologia di massa utilizzate nella pubblicità commerciale, e il pubblico dei consumatori, sotto certi aspetti, assomiglia sempre di più a quel gregge docile  vagheggiato dal clero come modello ideale di popolo.
  Che cosa è e soprattutto chi  è il popolo?
  Non è facile rispondere, in religione, ma ormai anche da altri punti di vista, quello giuridico e quello sociologico, ad esempio.
  E’ importante stabilirlo perché, secondo la fede, ci proponiamo di fare di tutte le genti della terra un unico popolo. Fino a non molto tempo fa questo appariva un obiettivo destinato alla fine dei tempi. Oggi è una prospettiva resa concretamente possibile dalla globalizzazione  dell’economia e del diritto. Ma anche indispensabile per consentire la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta. Il secolo scorso essa appariva minacciata dal conflitto nucleare globale, oggi dagli stessi costumi consumistici quotidiani, banali.
  Da un certo punto di vista ci siamo uniti, nella fitta rete di relazioni commerciali, ma anche di altro genere, ad esempio nell’informazione e nella cultura, che ci connette a livello mondiale, ma da altri punti di vista ci stiamo dividendo e schierando. I sistemi politici non sono integrati e lungo le linee di contatto territoriali si generano frizioni e motivi di conflitto. Nell’era della globalizzazione  si è ricominciato a credere possibili e utili guerre locali per risolverli e gravi conflitti, per ora  a bassa intensità, sono ormai endemici ai confini orientali e meridionali dell’Unione Europea.
 I popoli sembrano, come sempre, avere scarsa voce nella politica mondiale. Ci siamo abituati a considerare principalmente le personalità che le dominano, giunte ai vertici delle più grandi confederazioni di potere politico. Eppure le oligarchie che li dominano ne sono influenzate molto più che in passato, quando, organizzate in sistemi dinastici, li dominavano e basta. Mutamenti di massa di stili di vita possono cambiare le cose. Essi sono possibili anche a partire da realtà di prossimità. In un sistema globale basato sull’accaparramento del consenso dei  consumatori, nelle grandi guerre commerciali, un mutamento delle propensione al consumo può fare la differenza. Questo è sperimentale anche su piccola scala. Nel nostro quartiere si tentò di fascinare commercialmente la gente, cercando di farle vedere i benefici di un’edificazione intensiva sul pratone. Ci fu, anni fa, un’intensa attività di pubblicità in quel senso, forse alcuni lo ricordano. La gente la respinse ed avemmo il pratone  e poi il Parco delle Valli. Ma fui il consenso dei consumatori a consentire lo sviluppo del mercatino ad capo del parco, alla fine di via Conca d’Oro. I consumatori del quartiere, ad un certo punto, decisero di non essere più solo gregge.
  Quando i dirigenti delle nostre collettività religiose, anche in AC, iniziano a progettare l’azione sociale, non si sa bene dove vogliano andare a parare. Iniziano a parlare in ecclesialese, il gergo di quegli ambienti, e chi li capisce più? Si mantengono sul vago, in genere limitandosi all’analisi della situazione. Al dunque sembra che non sappiano che pesci pigliare. Sembrano stretti in limiti invisibili, timorosi di allargarsi. In realtà, anche se non credo se ne rendano conto, si tengono ancora nei limiti fissati all’azione sociale in religione dal vecchio Concordato concluso nel 1929 con il Mussolini, che vietava la politica alle istituzioni religiose. Ma quel Concordato è stato quasi completamente abrogato dagli accordi di revisione del 1984. Ora sono stati riconosciuti come campo proprio delle istituzioni religiose la promozione dell’uomo e il bene del Paese, vale a dire la politica (art.1 dell’Accordo di revisione 1984).
  Non bisogna illudersi: anche dialogando, non si resisterà al degrado senza azioni di  lotta, e non solo di lotta interiore. La politica  è anche questo. Ma nella nostra tradizione religiosa la lotta è stata prevalentemente intesa come  resistenza passiva. E la passività  del papato nel corso del fascismo storico gli è stata imputata come grave colpa, ma la sentenza dovrebbe estendersi a tutto il popolo italiano di quell’epoca, salvo che per i tempi dopo quella conversione di massa che consentì la Resistenza tra il ’43 e il ’45 e l’avvio di processi democratici. La dottrina sociale, fino dall’enciclica Le novità,  è stata avversa alle agitazioni di massa. Del resto essa è espressa da sovrani  assoluti.  Pensare la politica di popolo è la sfida di oggi anche in religione, ora che ci si propone di salvare il mondo  (è appunto questa la grande  politica, quella con la P  maiuscola.

50. Costruire il popolo


 Una volta ci si ritrovava nel dominio della nostra Chiesa come ci si trovava in quello dello Stato e i due poteri erano collegati: entrambi erano sacralizzati, vale a dire assolutizzati  secondo la nostra fede,  e si sostenevano a vicenda nel dominio sulla gente. Non c’era nulla da decidere per le persone e nelle statistiche nazionali si veniva contati  come cittadini e credenti religiosi in quanto italiani. Il principio liberale “libera Chiesa in libero Stato”  era una specie di regolamento di condominio tra oligarchie politiche. Questa era la situazione alla caduta del fascismo storico italiano, nel 1945. E’ continuata a lungo più o meno tale e quale anche in democrazia, durante il dominio del partito cristiano, la Democrazia Cristiana.  E’ cambiata a cominciare dagli scorsi anni Sessanta, fondamentalmente per la de-sacralizzazione  del potere politico indotta dai nuovi principi enunciati dai saggi del Concilio Vaticano 2°. Quella religiosa fu presentata sempre più come una scelta, che richiedeva un’adesione. Negli anni ’80 si produsse una grave crisi della politica, che si sentì e fu analizzata dagli studiosi come  delegittimata, in crisi di consenso popolare. Fu un processo causato dall’aumento del potere auto-referenziale di oligarchie collegate ad un nuovo dominio di classe, della classe che riusciva ad avvantaggiarsi dei processi economici globalizzati. I politici nazionali iniziarono ad imitarne i costumi, così come taluni principi regnanti delle residue monarchie occidentali assumevano quelli dei più ricchi. Sia in religione che in politica la maggior parte della gente finì per essere tagliata  fuori: in religione perché non rispondente ai criteri più selettivi proposti per ottenere il riconoscimento come credenti (l’asticella  era stata molto alzata, la religione non era più a buon mercato); in politica perché ritenuta incapace  di capire il nuovo  mondo e di interagirvi positivamente.
  Dagli anni ’90 la politica, sia quella religiosa che quella civile, si separò dal popolo. Si rese autoreferenziale dal suo consenso. Bastò accattivarsene periodicamente i consenso plebiscitario  con tecniche di marketing, quelle che servono a fascinare il pubblico  dei consumatori. In religione si impiegarono i grandi eventi  costruiti intorno ai papi, ingenerando un neo-papismo di tipo personalistico che mai c’era stato prima di allora.
 Il popolo ridotto a pubblico  non è però sufficiente per sostenere le politiche che servono per contrastare le minacce che vengono da uno sviluppo economico e sociale scompensato. Le relazioni tra le persone sono troppo labili, tendono a sfaldarsi rapidamente e capricciosamente. Le oligarchie politiche hanno voluto assumere l’immagine di referenti di consumatori, fascinando la gente, e si trovano a subire il contrappasso, una punizione corrispondente alla loro colpa, perché è una colpa aver ridotto in quel modo i processi democratici, per cui hanno solo il credito che può essere ottenuto con quel tipo di fascinazione, a brevissima scadenza: si sono fatte estremamente precarie e navigano a vista.
  Gli studiosi, pensando all’origine dello stato, vi videro o il risultato di un dominio ottenuto con un atto di forza  di un’oligarchia, a cui gli altri si assoggettano per quieto vivere, cedendo  il proprio potere sociale per desiderio di protezione, o un patto  sociale. In entrambi i casi, a partire dagli anni ’80, il potere in Italia divenne il risultato precario  di uno scambio, potere contro favori di categoria (fenomeno che viene definito  consociativismo), e poi, con l’emergere di oligarchie di potere consumistico, il risultato ancora più precario, perché non fondato nemmeno su un labile accordo commerciale, di una combinazione episodica tra potere e fascinazione, per cui, ad un certo punto, si riesce a convincere un adulto a tracciare un segno sulla scheda elettorale, senza troppo pensarci. In questa situazione le promesse politiche possono tranquillamente non essere mantenute e nessuno se ne adombra.
 La sfida dell’oggi è quindi quella di una nuova  democratizzazione  della società, costruendo relazioni  forti, una nuova trama di popolo, generando una nuova metamorfosi da pubblico/folla  a popolo  democratico.

51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa

  Nelle nostre collettività religiose lo sviluppo di processi democratici è ostacolato dall’ingombrante gerarchia feudale del clero. Occorre trovarle un posto e non è facile. Fatto sta che, quando si parla di organizzarsi  per fare qualcosa, si finisce di solito per andare molto sul vago, non trattando veramente di come si è  e di  come si dovrebbe o vorrebbe essere, ma di qualche obiettivo che sta fuori  di un certo gruppo di riferimento. Si cerca sempre di mostrarsi  nella condizione di gregge,  pronto a seguire pastori. Ma che di che parlano gli  esseri umani/gregge quando stanno tra loro? Si parla in ecclesialese, il gergo/chiacchiericcio infarcito di parole della teologia, che serve a parlare senza dire nulla, per fare bella figura senza rischiare. Ogni decisione  collettiva è frutto di un difficile compromesso con il clero, che di solito viene raggiunto in mediazioni riservate. Le assemblee servono solo per ratificare.
   Nell’organizzarsi  collettivamente  gli esseri umani sono ostacolati dai loro naturali limiti cognitivi. Secondo gli antropologi non siamo capaci di relazioni profonde, stabili, con più di circa centocinquanta persone. E’ chiaro però che le nostre società sono  organizzate  per collettività molto, molto più vaste, e addirittura a livello mondiale. La gente allora fa come gli uccelli nello stormo: prende le misure su quelli che sono intorno più vicini e su chi sta avanti a tutti. Vi è poi un modo di comportarsi in società che dipende dalle culture e consiste nel far riferimento ad un sistema di miti e di idee: è la via delle religioni e del diritto. La cultura allora è come una cartina topografica che ognuno tiene in tasca e dice come fare per raggiungere un certo posto
  Di solito non abbiamo bisogno di contatti profondi con tutti quelli che incontriamo. Circolando per strada incrociamo  migliaia di persone senza mai incontrarle. Ognuno sa come comportarsi in questi rapporti fugaci, istantanei e labili. Se dovessimo approfondire, la vita sociale si bloccherebbe. Ora, è importante discutere di un tema che è diventato particolarmente critico nella nostra civiltà: i rapporti che si hanno interagendo sul WEB, su “internet”, sono di questo tipo, anche se chi interagisce vi investe molta emotività, come per rapporti profondi. In realtà non si creano relazioni stabili e profonde tra le persone. Questo significa che chi sta molto su “internet” è un isolato, anche se sembra interagire tutto il tempo con altri. E’ una condizione che spiega perché “internet” abbia fallito nella costruzione di processi democratici, ad esempio nelle “primavere arabe” degli anni scorsi, ma anche da noi in politica. Che cosa corre tra le persone quando stanno su “internet”? Corre solo la cultura altamente formalizzata, quella delle piattaforme, dei  portali, organizzata e diretta da altri (quelli che hanno il potere di ammettere  e di escludere e fissano le regole dell'interazione), quella che consente i contatti  tra utenti. “Internet” non è quindi il regno della libertà e della spontaneità, ma il suo contrario.
  Se si considerano solo le persone più vicine, le realtà di prossimità, si costruiscono solo gruppi molto piccoli e dalla vita breve. Se ci si orienta sui capi, si perdono le realtà di prossimità. Ogni potere tende ad assolutizzarsi, su grande e piccola scala, e a togliere spazio alle altre persone. Anche nell’associazionismo religioso. Lo ha detto anche l’attuale Papa ed è sorprendente, perché l’ingenuo papismo mediatico e personalistico  inaugurato dal Wojtyla consiste proprio in questo. La scarsa familiarità con rapporti collettivi profondi fa perdere senso alle culture condivise, sfascia le tradizioni. Questi, riassumendo, sono alcuni tra i  problemi principali delle società occidentali contemporanee nell'organizzarsi collettivamente. Nell’ecclesialese  corrente sono cose risapute. Quando poi si tratta di passare dall’analisi critica alla costruzione del cambiamento le cose si imbrogliano e ci si arresta, rimandando alla prossima settimana sociale o  assemblea.
  L’altro giorno abbiamo fatto una festa in parrocchia e abbiamo visto che le molte persone che sono venute sono rimaste sostanzialmente estranee tra loro. E questo anche se si era organizzato un ricco rinfresco. Di solito il mangiare insieme è una delle basi naturali  degli incontri. Era però un rinfresco  in piedi, e in occasioni del genere si tende a ruotare  intorno ai tavoli per poi trovare un posto laterale  per mangiare. Nessuno ha un proprio posto  e ogni posto in cui ci si ferma un attimo  di solito non è quello che si riuscirà a conquistare nella fase successiva. Nella socialità del party  secondo il modello statunitense (party nell’angloamericano significa sia  festa  che partito), che è appunto l’incontro di i un gruppo per un rinfresco in piedi, le persone girano presentandosi le une alle altre, intrattenendo brevi conversazioni con molti dei partecipanti nel corso delle quali  programmano  incontri più ravvicinati e profondi, ad esempio per questioni di lavoro. Al centro dell’evento c’è l’incontrarsi  per conoscersi. Una festa  in società dovrebbe avere questo obiettivo. E’ diversa dalla festa parentale  in cui ci si conosce già tutti. Spesso le assemblee che si fanno nelle collettività religiose hanno il tono delle feste parentali. Occorre trasformarle in feste per conoscersi, che chiamerei  feste/partito,  in angloamericano “party/party”, quelle che fanno movimento. Un processo democratico parte da occasioni come queste. Si deve proporre un minimo di formalità, vale a dire un  rito, perché ognuno senta di avere un posto ci deve essere una persona di riferimento, ma non ingombrante come un capo, quindi un potere non sacralizzato; infine  deve essere proposto il metodo, e l’etica, dell’incontro, per cui ci si deve presentare, parlare con più persone di volta in volta per averne un’idea più precisa, senza però monopolizzare gli altri perché questo riduce il numero degli incontri possibili. Liturgie troppo pervasive e formalizzate impediscono gli incontri personali. Lo stesso accade con capi troppo ingombranti. Negli incontri personali occorre garantire una certa libertà con l’avvertenza che è sconveniente aprirsi troppo o chiedere troppo agli altri. Il rapporto con gli altri va costruito progressivamente, di tappa in tappa, conoscendoli meglio. Avvicinandoli più spesso si ha occasione di farlo. Relazionandosi su “internet” se ne ha solo l’impressione (falsa), ma si rimane sempre allo stesso punto.
  Le feste/partito  sono alla base dei processi democratici, anche di quelli popolari, di massa. Quando i lavoratori contarono di più in società organizzarono la Festa dei lavoratori (non del lavoro, come talvolta, sbagliando, si dice). Un politico come Giorgio La Pira ne fu ben consapevole. Inaugurando da sindaco, il quartiere di case popolari dell'Isolotto, a Firenze, consigliò ai sacerdoti che erano stati inviati nella nuova parrocchia di fare molte feste. 

52. Un lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà

[da Z.Bauman - E. Mauro, Babel, Laterza, 2015, pag.147-148]

Z.Bauman
  Per noi ci sono voluti millenni perché mettessimo nell’agenda pubblica l’abolizione della pena capitale.  Per noi ci sono voluti millenni perché vietassimo la schiavitù. E ci sono voluti millenni perché promuovessimo l’uguaglianza dei sessi. E chi sarà tanto arrogante da sostenere che abbiamo effettivamente raggiunto  tutti questi obiettivi un volta per tutte? Noi possiamo sperare (io lo spero quanto te) che la nostra verità si imporrà alla fine sul pianete che abbiamo in comune, così com’è accaduto (quasi) nella «nostra» parte del globo. Ma abbiamo comunque  bisogno di attrezzarci per la estenuante lunghezza del cammino, per la scabrosità della strada e per la limitata affidabilità dei veicoli a nostra disposizione. Quello che abbiamo davanti a noi da affrontare  è quello che i francesi chiamano un travail de longue haleine [un lavoro di lungo respiro, trad. mia].
   In ogni caso, continuo a ripetere che fra i veicoli disponibili per percorrere questa strada c’è il serio dialogo fondato sulla buona volontà (informale, aperto, cooperativo, per citare di nuovo le qualificazioni di Richard Sennet), che miri alla comprensione reciproca e al mutuo beneficio, che meriti la massima fiducia (anche se non certo assoluta e incondizionata). Un dialogo di questo tipo non è compito facile né -diciamolo pure- allegro; richiede una determinazione solida e costante, capace di resistere a ripetuti e anche molto negativi risultati, un forte senso dell’obiettivo finale, una grande arte, e la disponibilità ad ammettere i propri errori insieme con l’arduo e faticoso dovere di porre riparo ad essi; e soprattutto tanta pacatezza, equilibrio e pazienza.

53. Imparare la democrazia


  La democrazia non è un fatto innato, si impara. Nella società italiana di oggi mancano gli insegnanti. Storicamente l’Azione Cattolica è stata una delle principali scuole di democrazia in Italia: prima però ha dovuto essa stessa impararla e, innanzi tutto, convincersi del fatto che fede e democrazia potessero andare d’accordo. All’inizio del Novecento questa idea veniva considerata parte dell’eresia modernista. Questo significa che, all’origine, la dottrina  sociale, le idee dei papi sulla riforma sociale, non comprendeva la democrazia. Infatti si riteneva che i progetti di miglioramento sociale dovessero discendere dall’alto, dedotti con ragionamenti teologici e proclamati con autorità. Progettare il bene veniva considerato monopolio dei papi. L’osservazione e la comprensione realistica della società in religione vennero progressivamente, in particolare, in Italia, con il lavoro che si fece in Azione Cattolica, dopo la sua fondazione, che risale al 1905, e per la sua organica collegamento con la gerarchia del clero.
  La democrazia non è solo un metodo  per prendere decisioni a maggioranza, ma un sistema di valori. Principio fondamentale della democrazia è di considerare tutti uguali in dignità. L’uguaglianza, però, va costruita in ciascuno. Lo si fa rendendo libere  le persone, che non significa lasciarle alle loro passioni, ma fare in modo che possano decidere consapevolmente. Senza vera libertà,  ciascuno cade preda dei più forti. Il motto del primo partito di ispirazione  religiosa, il Partito popolare italiano, fondato nel 1919 dal prete Luigi Sturzo e da altri suoi amici, fu  Liberi e forti. Ma nessuno è veramente libero da solo. E’ la società nel suo insieme che va liberata. Chi la libererà? “Non esistono liberatori, ma persone che si liberano”, fu il motto di un gruppo resistenziale milanese di cui fecero parte il prete Giovanni Barbareschi e Teresio Olivelli. La liberazione è un compito collettivo che richiede di essere solidali, di considerare anche gli altri, di tener conto di loro e, in particolare, di chi sta peggio, perché non ci sono persone che abbiano più urgenza di liberazione di quelle che stanno peggio, e di solito si sta così quando si finisce in mani altrui. Libertà, uguaglianza, fraternità sono valori assoluti in democrazia, sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza. Nella nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004),  a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°  in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’”  è stato il motto della Rivoluzione francese.  In fondo sono idee cristiane ». Quando quelle parole furono pronunciate la democrazia non era ancora  completamente una conquista culturale nella nostra fede: lo divenne solo circa dieci anni dopo, nel 1991, con una storica enciclica del medesimo papa, Il Centenario, in occasione dai cento anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna. C’è voluto quindi un secolo perché, in religione, l’idea di riforma sociale fosse abbinata a processi democratici. Ma si tratta di un conquista che va rinnovata di generazione in generazione.
 L’idea che proprio la Chiesa insegni la democrazia appare ancora oggi un po’ strana. E’ il residuo, in genere inconsapevole, del passato. Chi parla di democrazia in religione a volte viene collegato con i  comunisti. La bestia nera della prima dottrina sociale fu il socialismo. Urtava pensare che le masse dovessero liberarsi con un proprio movimento sociale e non attendere la giustizia sociale da chi dall’affermarsi della giustizia sociale avrebbe subito solo un danno patrimoniale. In effetti socialisti e comunisti, e in particolare questi ultimi, dovettero imparare la democrazia negli stessi anni, e con le stesse difficoltà,  in cui lo si fece in religione. Imparandola, la trasformarono. La innervarono di idee di giustizia sociale molto più che alle origini. A lungo i comunisti ritennero la democrazia un imbroglio borghese, in particolare constatando che, anche dopo l’introduzione del suffragio universale, le masse davano credito elettorale a chi non faceva, o non  faceva del tutto i loro interessi. Come può succedere? Successe perché, in ambito democratico, si temperarono le asprezze sociali, venendo incontro a chi stava peggio. Si raggiunsero accordi che convennero a tutti. La crisi di quegli accordi è all’origine di quella della società di oggi. Non è un caso che si accompagni ad una crisi dei processi democratici: la gente non ha fiducia nella democrazia e chi comanda cerca di avere il consenso fascinando  i singoli, più che coinvolgendoli nelle decisioni collettive.

54. Democrazia e virtù


  C’è in giro l’idea che la democrazia sia politica debole e corrotta. Ci è rimasta dal fascismo, tramandata di generazione in generazione.
  In realtà vediamo come dalla Seconda Guerra Mondiale, finita nel 1945, più della metà del mondo è stata dominato da grandi democrazie piuttosto bellicose, quindi forti. E la democrazia si regge su un sistema di virtù  personali e collettive, senza le quali non può esistere. Una delle principali è la giustizia: non ci arrende alle prepotenze. In democrazia il potere è condiviso, ma non lo si può fare senza essere giusti, perché, altrimenti, l’arbitrio di pochi sarà legge. In democrazia non si impiegano le potenti polizie politiche costruite dai principali totalitarismi suoi avversari. Ciascuno osserva le leggi per poter essere liberi: è cosa che si è capita fin dall’antichità sulla democrazia. La violazione della legge è vista come arbitrio e prepotenza. Può accadere che, ragionando seriamente e nell’interesse comune, collettivo, si finisca per ritenere una legge ingiusta e quindi non degna di una democrazia: ma non è  decisione che si prende a cuor leggero. Chi viola una legge di solito lo fa di nascosto e non vuole essere scoperto. Chi, in circostanze eccezionali, non osserva una legge perché ingiusta, e quindi indegna, lo fa apertamente, subendone le conseguenze. Questo  rientra nel metodo della non-violenza praticato e insegnato dal politico indiano Mohandas Karamchand Gandhi, Mahatma cioè grande anima, (1869-1948).
  In un sistema politico non democratico viene insegnata la virtù dell’obbedienza incondizionata. In democrazia l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, come scrisse Lorenzo Milani. In democrazia non si osservano le leggi per obbedienza, ma perché è giusto  fare così. Le singole leggi possono essere anche imperfette, quindi  ingiuste, ma sono frutto di procedure condivise e possono essere cambiate nello stesso modo: non sono nelle mani dell’arbitrio di nessuno. Se lo fossero, non ci sarebbe più la democrazia. Ripeto questo insegnamento che ci viene dall’antichità: la democrazia è un sistema in cui ciascuno pone dei limiti al proprio arbitrio, non per obbedienza o peggio per paura, ma perché tutti si possa essere liberi. E’ per questo che il grande filosofo greco Socrate, vissuto nell’Atene del 5° secolo dell’era antica, decise di assoggettarsi alla condanna capitale che gli era stata inflitta, benché, a suo avviso, ingiusta.
  Senza virtù personali e collettive le democrazie muoiono, finiscono. Le democrazie che appaiono corrotte e deboli sono democrazie che stanno morendo. E’ in fondo questa la causa della crisi anche della nostra democrazia. Si tiene troppo poco conto degli altri, delle loro sofferenza, in particolare quando agiamo da consumatori. Così ci facciamo complici dei carnefici di chi sta peggio nel mondo.
 Per insegnare la democrazia bisogna innanzi tutto far riscoprire le virtù democratiche. Si vedrà che in questo modo la società funziona meglio. Lo si può fare fin da bambini: mai umiliare, mai far soffrire, mai escludere, dividere ciò che si ha, mai tradire la fiducia degli altri, resistere all’arbitrio e alla violenza. E’ cosa che un tempo si imparava nei giochi collettivi: ora i ragazzini fanno vita da piccoli monaci. Il primo passo potrebbe essere questo: fare bei giochi di gruppo in parrocchia.

55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico


  La salvezza dell’umanità in questo mondo non è stata sempre un problema religioso: lo è diventata, anzi, molto di recente. Da quando si è cominciato a ragionare in grande. Si è iniziato a farlo da metà Ottocento, ma è dalla metà dello scorso secolo che si è cominciato progressivamente a capire che l'intera  umanità era minacciata di annientamento. Quindi è molto importante conoscere la storia degli ultimi due secoli. Sono quelli in cui tante prospettive religiose sono cambiate, appunto perché si  è cominciato a pensare in grande, oggi si dice su scala globale, tenendo conto, appunto, di tutta  l’umanità. Questo pone un problema che riguarda la teologia dei secoli precedenti, la quale si è sviluppata in una prospettiva diversa. Le questioni che trattava non erano quelle che sono oggi al centro della nostra attenzione. Con la teologia è in questione anche l’intera formazione religiosa, che consente di tramandare una tradizione di generazione in generazione.
  A lungo, molto a lungo, le questioni di salvezza  erano trattate a partire dall’anima. La morte è un fatto umano ineludibile, lo tocchiamo con mano, letteralmente. In religione si è convinti che l’essenziale di noi sopravviva, che si vada incontro a un giudizio dopo la morte, e che alla fine dei tempi tutto ciò che siamo risorga, anima e corpo, per il premio eterno o la dannazione eterna. Quali saranno i criteri del giudizio? Si sarà giudicati da come ci si è comportati nella vita fisica, terrena. La vita religiosa dovrebbe essere quella che porta al premio eterno. Questo è stato, dalle origini e praticamente fino all’altro ieri della storia, il principale problema della religione. Il miglioramento della società veniva considerato in questa prospettiva, che, per la verità, è ancora quella di molti, specialmente dei più anziani, perché la formazione personale puntava a quello, e allora aveva molto importanza, ad esempio, la devozione personale. La persona pia si sforza di essere buona e questo impegno, se si diffonde in una società, la migliora. C’era ad esempio, e c’è ancora naturalmente, la questione della penitenza, quella mortificazione che ci si impone perché si sa di aver agito male, per correggersi ma anche per dimostrare concretamente di volerlo fare, e quindi poi per non essere esclusi dalla salvezza eterna. Ma la salvezza dell’anima, nell'aldilà,   non è la stessa cosa della salvezza dell’umanità qui in questo mondo, che significa creare, oggi, durante questa vita, società migliori, non solo persone pie, e ciò per diminuire la sofferenza e fare di tutta l’umanità una sola famiglia (così si espressero i saggi dell’ultimo Concilio). Se si prende questa via, se ci si propone questo tipo di salvezza, allora si pongono questioni specificamente politiche, perché la politica è l’azione collettiva per organizzare le società. In religione si è sempre fatta politica, anche molto prima che la nostra fede divenisse anche ideologia politica dell'impero mediterraneo in cui si diffuse, dal Quarto secolo della nostra era. Non sarebbe potuta diventarlo se non si fosse ragionato di politica già prima. Del resto la condanna del Maestro fu motivata come punizione di un crimine politico: l’aver voluto farsi re. Questo anche se egli non fu certamente un capo politico. La politica venne dopo, quando si trattò di dare un’organizzazione a collettività sempre più vaste. Ma troviamo traccia di questo pensiero politico già negli scritti sacri nella nostra fede, in particolare nell’ultimo libro che li compone, dove, dopo la prefigurazione di una serie di immani tragedie della storia umana, in cui si criticano aspramente le prassi politiche del dominio romano, c’è la visione di una nuova città  che scende dall’alto, perché tutto quello che c’era prima non c’è più, e allora sarà asciugata ogni lacrima. La politica è parte importante del pensiero del teologo e vescovo nord-africano Agostino d’Ippona, vissuto tra Quarto e il Quinto secolo della nostra era: ne trattò in un libro intitolato La Città di Dio, nel quale si contrappongono due concezioni della politica viste come in conflitto insanabile.
  Presto le nostre organizzazioni religiose si diedero struttura politica e iniziarono a fare  politica trattando con i sovrani civili. Più o meno dall’Ottavo secolo il vertice religioso ebbe un piccolo regno nell’Italia centrale e fu anche  un sovrano civile. Si ritenne che questo fosse indispensabile per trattare da pari con gli altri sovrani. Due secoli dopo quel vertice volle farsi impero e quindi  dominare  tutti gli altri sovrani, dettare loro legge da un trono religioso. La giustificazione di questo potere rivendicato come supremo, e talvolta anche riconosciuto effettivamente come tale, era che consentiva di ammaestrare le genti, per farne collettività devote e in tal modo per condurle alla vita eterna. La salvezza terrena  dell’umanità era fuori del campo d’azione praticato: per questo non si mise in questione che potessero esserci guerre, anche molte sanguinose, alcune delle quali promosse direttamente o comunque assentite dai capi religiosi. Né, in genere, costituì un problema religioso il genocidio degli amerindi, delle popolazioni di antica origine asiatica che i colonizzatori europei trovarono scoprendo  le Americhe, attuato da potenze europee sacralizzate  secondo la nostra religione. Né, più vicino a noi e a riguardo della politica italiana, lo costituirono le sanguinose guerre coloniali attuate dal Regno d’Italia in Eritrea ed Etiopia, abitate da genti della nostra fede benché di altra confessione, e in Libia. In Etiopia ci fu un fatto di sterminio di religiosi, come vendetta militare. Si consideravano tutti questi eventi come fatti umani fisiologici  dal punto di vista sociale e, in definitiva, insuperabili, se non alla fine dei tempi. L’importante è che ai morituri e morenti fosse aperta la via per la vita eterna, attraverso l’ammaestramento religioso. A tal fine occorreva garantire immunità al clero, ai religiosi (gli appartenenti a congregazioni di frati, e suore, monaci e monache) e ai loro beni. Raggiunta questa, in particolare mediante concordati  e altri accordi, conclusi e formalizzati al modo di quelli che si concludevano tra potenze civili, non si considerava che occorresse fare molto altro, dal punto di vista politico, e, anzi, si accordava di buon grado la sacralizzazione  al potere civile con cui ci si era, sostanzialmente, federati. L’essere anche un potere civile al modo di uno stato, più che la sua maestà  religiosa, sottraeva il papato al dominio degli altri sovrani civili. Il papato fu concepito molto presto come un potere assoluto e questo lo espose al degrado etico a cui sono soggetti i poteri politici senza limiti. Questo fu particolarmente sensibile intorno all’anno Mille, ma la situazione non migliorò sostanzialmente fino al Cinquecento, secolo in cui, stimolati dalla Riforma luterana, si diede un migliore  profilo etico ai poteri ecclesiastici. Fino a quell’epoca, come per le dinastie politiche sacralizzate  non si esigeva che i regnanti fossero personalmente  e  in tutto rispettosi dei precetti religiosi, si adottarono gli stessi criteri per determinare la coerenza morale dei poteri religiosi, che si fecero lecito una parte di ciò che vietavano ai fedeli comuni e che rientrava nelle abitudini correnti dei regnanti. Quindi, a lungo non ci furono molte differenze tra un principe civile e uno religioso, in particolare nel modo in cui si relazionavano con i loro sudditi. L’attuazione della  giustizia sociale come oggi la intendiamo non era considerata indispensabile per i regnanti, i quali se ne occupavano molto poco.
  La situazione iniziò a mutare con l’emergere dei processi democratici di massa, nell’Ottocento e in Europa e nelle parti del mondo colonizzate dagli europei. Inizialmente fu in questione la libertà, che presto in teologia si diffamò come arbitrio, licenza immorale e insubordinazione. Poi, con lo strutturarsi di movimenti di massa, in particolare di quelli socialisti, cominciò ad essere rivendicata la giustizia sociale, sulla base di eguaglianza in dignità  e di  solidarietà civile. Tutti i poteri assoluti furono minacciati e dovettero venire a patti politici, fondamentalmente ponendo dei limiti al proprio potere, in particolare concedendo statuti. Il papato non vi fu costretto perché, nel processo di unificazione nazionale, nel 1870 perse il suo piccolo regno italiano, rimanendo solo una potenza religiosa. Si sentì menomato. Reagì politicamente cercando di suscitare un movimento di massa ostile ai movimenti liberali e nazionalisti che dominavano la politica dell’invasore, del Regno d’Italia, e che lo avevano spinto contro il piccolo regno del papato. Utilizzò ciò che c’era già, vale a dire il vasto e multiforme mondo dell’associazionismo solidale che si era formato in Italia su ispirazione religiosa, animato dal clero di base, e i ceti colti che avevano suscitato. dal Settecento, la polemica religiosa contro l’Illuminismo. Volle animare  il popolo minuto, in particolare quello del mondo contadino, ritenuto ancora fedele al suo potere, a differenza della borghesia liberale. Per farlo costruì una dottrina di giustizia sociale, quella che viene definita dottrina sociale, che è parte del magistero, quindi della teologia  insegnata d’autorità dal papato. Questo generò un pensiero sociale  e correnti democratiche: si pensava anche a una democrazia  animata  dai valori sociali della fede. A cavallo tra Ottocento e Novecento si venne a una resa dei conti tra esse e quelle, dette intransigenti (verso lo stato liberale), che ponevano al centro di tutto i diritti politici violati del papato e i suoi interessi patrimoniali colpiti pesantemente dalla prima legislazione del Regno d’Italia (il clero e gli ordini religiosi erano, e sono, tra i maggiori proprietari immobiliari). Intervenne il papato d’autorità, tra il 1902 e il 1906, scomunicando, nel vero senso della parola, le correnti democratico cristiane,  e costruendo l’Azione Cattolica, come movimento di indottrinamento di massa secondo la dottrina sociale. Questa organizzazione ebbe uno straordinario successo popolare, in particolare fra le donne. Fu la maggiore scuola di politica di massa fino agli scorsi anni ’70. Era organicamente collegata alla gerarchia del clero, che ne nominava i capi. Quando il papato romano si compromise con il regime fascista, nel 1929, risolvendo la questione romana con i Patti Lateranensi, ritornando sovrano politico nel quartiere romano di Borgo e ricevendo ingenti indennizzi patrimoniali, fu spinta a fascistizzarsi politicamente, ma le sue organizzazioni intellettuali, FUCI(gli universitari) e Movimento Laureati Cattolici, resistettero, svilupparono un pensiero politico sociale autonomo sulle suggestioni del personalismo francese dei filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier e formarono la classe politica che, dopo aver partecipato alla guerra di Resistenza contro il regime fascista e l’occupante tedesco combattuta tra il 1943 e il 1945, dominò poi la politica democratica italiana fino al 1994, sostenuta dalle masse di Azione Cattolica.
  A partire dalla Prima Guerra Mondiale (1914-1918) nella dottrina sociale comparì il tema della pace.  Non si arrivò ancora a contestare il diritto dei poteri civili di fare guerra, ad esempio liberando i militari dall’obbligo di fedeltà ai governi che la proclamavano. Ma si iniziarono a qualificare come inutili  le stragi belliche. Inutili perché? Così furono definite da un papa verso la fine di quella guerra, nel 1917. Sembrava che le controversie potessero essere risolte con accordi:
“un giusto accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la decisione.” [dalla lettera del papa Giacomo della Chiesa - Benedetto 15° ai capi delle nazioni belligeranti, del 1-8-1917].
 E, allora, perché la guerra?
  In primo piano, però, non apparivano le stragi, ma il disordine politico conseguente ai conflitti. Per progredire nell’ideologia di pace occorse altro tempo e un’altra guerra mondiale.
  Dalla Prima Guerra Mondiale l’Europa uscì molto cambiata e in modo del tutto inaspettato per i  più. I movimenti  politici di massa emersero con particolare forza, perché le masse erano stato molto ideologizzate per spingerle verso il conflitto (è solo così che si convince la gente ad andare a farsi ammazzare): in diverse nazioni europee finirono nel dominio di organizzazioni fasciste e in Russia dei bolscevichi comunisti. Vent’anni dopo si combatté un’altra guerra mondiale, che viene considerata un po’ come una prosecuzione della prima. L’Europa orientale finì sotto il dominio dell’Unione Sovietica e nell’altra si svilupparono movimenti democratici di massa, salvo che in Spagna e Portogallo, rimasti nel dominio di regimi di tipo nazionalista e fascista non colpiti dalla guerra in quanto non vi avevano preso parte. Il mondo si divise in due: la parte con economia capitalista e l’altra con economia comunista. Entrambe le potenze egemoni nei due schieramenti avevano l’arma nucleare e si constatò che una guerra nucleare, con l’impiego di quelle armi, avrebbe portato alla fine dell’umanità, per la ricaduta di particelle radioattive derivate dalle esplosioni. Fu proprio a quel tempo che il problema della salvezza dell’umanità in questo mondo  cominciò  a diventare un problema anche religioso.  Quest’ultimo fu al centro di uno dei documenti più importanti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),  la costituzione La gioia e la speranza.
  L’appello alla Politica  con la “P” maiuscola che ci  è venuto recentemente dal Papa si inserisce in quel filone ideologico. E' tale infatti la politica che si propone la salvezza dell’umanità, in questo mondo, mediante la riforma sociale. Essa ha anche un valore religioso, perché senza umanità non ci sarebbe più fede e si ritiene che la fede venga pregiudicata dalla distruzione massiva delle collettività umane. Dagli anni ’90, dopo la fine della contrapposizione armata tra blocchi  e quindi della possibilità concreta dello scoppio di un conflitto nucleare terminale, al centro delle preoccupazioni vi è lo sviluppo economico globale basato sulla competizione aggressiva, disordinata, insofferente dei limiti e riluttante alla solidarietà: è questo che, secondo molti osservatori, minaccia la sopravvivenza degli umani, portando al rapido degrado degli ambienti naturali e sociali. Questo tema è al centro dell’enciclica Laudato si’,  del 2015, ma era stato già trattato in precedenti documenti del genere. La novità sta nell’appello all’azione politica, e anche alla lotta, di massa per evitare la catastrofe naturale e sociale. In un certo senso da noi cade nel momento sbagliato, perché in Europa la politica è in crisi, sia quella di governo che quella di massa. Occorre riproporne i fondamenti e, innanzi tutto, riprendere ad educare alla politica. L’educazione alla politica comincia facendone tirocinio. Lo si dice, ma raramente si riescono a fare progetti in materia. E se poi la situazione ci sfuggisse di mano? E se, invece, la situazione ci fosse già sfuggita di mano e, in definitiva, imparare la politica fosse l’unico modo per cambiare una situazione che va rapidamente degenerando?

56. Educare alla democrazia globale


  Il mondo è diventato interconnesso su scala globale. Che significa?
  Ieri sono stato al grande magazzino che c’è vicino casa mia è ho comprato: un cappello, due cravatte, una cintura. Ho guardato le etichette: tutti sono stati fatti in Cina, dall’altra parte della Terra. E così è per la gran parte degli abiti che indossiamo e degli oggetti di uso quotidiano. Ma anche di ciò che mangiamo. E’ una situazione che ci conviene, come consumatori, perché i prodotti hanno prezzi bassi, alla portato delle masse, in Europa. Lo sono perché i lavoratori, nei posti dove vengono prodotti, vengono pagati meno che da noi. Ma anche perché da quelle parti è arrivata l’automazione e il lavoro produce di più. E’ un fenomeno che è iniziato più o  meno negli anni ’80 del secolo scorso. All’inizio era le imprese occidentali che organizzavano stabilimenti dove il lavoro veniva pagato di meno, per aumentare i propri profitti. Ora, però, comincia ad essere diverso. Anche lì dove si andava a produrre perché il lavoro costava meno si stanno organizzando grandi imprese locali che si stanno rendendo autonome dagli occidentali: anche se questi ultimi riportassero in Occidente le produzioni, la situazione, quindi, non cambierebbe; fallirebbero presto sotto la concorrenza dell’estero, a meno che il lavoro iniziasse a costare molto meno o i processi di automazione progredissero molto di più. Quello che sembra incomprimibile è il profitto, l’utile netto che viene a chi possiede le imprese, detratti  costi di produzione. Ma anche se le imprese che producono le merci di uso quotidiano decidessero di accettare di ridurne l’entità, non potrebbero farlo, perché le imprese di produzione sono sempre in debito verso che presta  loro il denaro per produrre. Quando vanno in crisi e falliscono il loro tesoro ha già da tempo preso il volo, sotto forma di restituzione di prestiti. Quando i lavoratori reagiscono occupando le fabbriche scoprono che sono sono di proprietà dei datori di lavoro, erano tutte  in prestito.  Non ci sono norme che consenta di coinvolgere la responsabilità di chi ci ha tanto guadagnato, finché le cose andavano bene. La legge stabilisce una limitazione di responsabilità. Chi controlla l'economia opera in gran parte in regime di limitazione di responsabilità. Ad occuparsi delle macerie sociali che lascia sono le istituzioni pubbliche, alle quali però, per varie ragioni, mancano le risorse per farlo.
 Il denaro è una merce come le altre. Chi commercia il denaro controlla l’economia. Non produce, non ha nazionalità, né stabilimenti: il denaro, nel mondo di oggi, può viaggiare velocemente e rapidamente, sulle reti telematiche che avvolgono il globo. E’ al sicuro dalle crisi economiche appunto perché può spostarsi in quel modo ed è diventato un bene immateriale, essenzialmente un fatto contabile. Tutto questo è consentito da una fitta rete di accordi internazionali, da una realtà giuridica a livello mondiale che non era pensabile fino agli anni ’80, con il mondo diviso in due blocchi contrapposti, con sistemi giuridici profondamente diversi. Non ci sono strumenti giuridici per collegare i grandi profitti che, anche in tempi di crisi, derivano dal commercio del denaro a responsabilità sociali quando le cose agli altri vanno male. Il capitale, il denaro impiegato in attività d'impresa, si può sganciare molto rapidamente da qualsiasi crisi: tutto coopera a questo, il diritto e la tecnologia.
  E’ appunto negli anni ’80 che tutto è cambiato, perché, in definitiva, si è scelto di produrre e commerciare secondo le stesse norme giuridiche, che consentono al capitale quella grande libertà. L’effetto sociale, a livello globale, è che chi è coinvolto in vari modi nel commercio del denaro, come proprietario di denaro o come collaboratori dei proprietari di denaro, come i dirigenti d’impresa, gli avvocati, i commercialisti, i proprietari di brevetti industriali per le nuove invenzioni che servono nella produzione e che danno diritto a compensi se sfruttate, è emerso, sta molto meglio di tutti gli altri, mentre i lavoratori, a livello mondiale, si stanno allineando su livelli di reddito più bassi, molto più bassi. Per gli occidentali questo ha significato una riduzione dei redditi. In Oriente e in altre parti del mondo è stato diverso, perché, rispetto alla situazione di prima, i redditi sono aumentati. I consumatori sono in maggior parte lavoratori. Per loro, come consumatori va ancora bene, perché le merci costano poco. Per farle costare poco bisogna pagare meno i lavoratori, i quali, quindi, progressivamente hanno meno denaro da impiegare nei consumi. Per favorire i consumi si riducono le retribuzione dei lavoratori, o si cerca di produrre dove le retribuzioni sono più basse o si riducono i lavoratori impiegando l’automazione. A livello mondiale, le norme che consentono al sistema di funzionare, non pongono limiti. La solidarietà funziona, e sempre meno, solo all’interno  di ogni singola nazione, o, al più, all’interno  di ogni singola federazione di nazione.  Tutto ciò è all’origine dei problemi sociali che affrontiamo oggi.
  Se un problema è di dimensioni globali, può essere affrontato a livello locale? Evidentemente no. Eppure spesso è questa la soluzione che viene proposta dalle politiche nazionali e non solo in Italia. E’  in questione la giustizia sociale. Ma lo è su dimensione globale  e non ci sono soluzioni valide che non comprendano anche di farsi carico di genti lontane, dove si producono le cose di nostro uso quotidiano. Ecco perché oggi la sfida è quella di creare una democrazia globale per ottenere che nei fatti dell’economia si tenga conto anche della maggioranza della gente che produce e consuma e non solo della piccola minoranza della finanza che controlla il mercato del denaro. L’impegno è questo, per ciascuno di noi, perché la democrazia è basata su ciascuno di noi: bisogna convincersi innanzi tutto  che di questa situazione siamo tutti  responsabili, in quanto in qualche modo complici di chi l'ha determinata, e che, insieme, si può cercare di cambiarla. Non è infatti un evento della natura, come i temporali e i terremoti, o un prodotto di volontà soprannaturale, ma solo una costruzione umana. E' stata fatta e la si può cambiare.

57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale

    Pensare in termini di sopravvivenza dell’umanità è un’esigenza nuova e infatti riesce difficile ai grandi come ai piccoli. In religione si hanno le risorse per imparare a farlo. Ma solo da pochi decenni la teologia ha cominciato a ragionarci sopra e quindi questo suo lavoro, ancora troppo recente, non si è tradotto effettivamente in processi formativi delle masse dei fedeli. In passato si è in genere ragionato il termini dipopoli di fedeli  contrapposti alle potenze  infedeli che si opponevano alla religione. Nelle guerre ci si sforzava di convincersi che il Cielo stesse dalla propria parte. La guerra, in definitiva, veniva considerata come un fatto umano insuperabile se non alla fine dei tempi, un flagello come gli eventi naturali avversi, una catastrofe come un terremoto o un ciclone o un stagione di forte siccità. Nel mondo globalizzato di oggi si ricomincia a pensarla così, non si esclude la possibilità di conflitti anche di grande entità: è la cultura internazionale, quella praticata da chi domina il mondo, a spingere verso questo modo di ragionare. Sembra che la sopravvivenza dell’umanità non si più legata ad un ordine pacifico mondiale. Quello su cui tutti concordano è un ordine giuridico mondiale che consenta la massima libertà  ai capitali, sia di movimento che di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Un pensiero che va in direzione contraria è quello espresso nell’enciclica Laudato si’, del 2015, nella quale sono sintetizzate le idee critiche sulla situazione globale.
  Di solito nei conflitti chi sta meglio in società ha più probabilità di scamparla. A rimetterci sono di solito le masse, e questo anche se sono spinte le une contro le altre con la prospettiva di rapinare le ricchezze altrui e di guadagnarci, come fecero i fascismi europei. Chi predicava, da noi, la guerra come igiene nel mondo,  non pensava a sé stesso come sporco da eliminare, ma alle masse, che trovava imbelli e troppo attaccate alle loro misere cose. E’ una situazione che fatalmente si ripropone tutte le volte che si ricomincia a pensare al conflitto come via di risoluzione delle controversie tra i popoli. La nostra Costituzione lo vieta, ma questo finora non ha costituito un serio problema, quando i capi politici hanno deciso che era il momento di fare di nuovo guerra. L’Italia è infatti impegnata su diversi fronti di guerra. Nella Costituzione c’è anche il collegamento tra lavoro e democrazia e il divieto di umiliare il lavoro, lo ha ricordato il Papa l’altro giorno a Genova. “E’ anticostituzionale”, ha detto. E’ così: un ordine che umilia il lavoro vacontro  la Costituzione vigente in Italia, è quindi eversivo. E’ significativo che sia rimasto quasi solo un Papa a proclamarlo alle masse, e per di più un Papa americano, venuto veramente da un altro mondo. Da noi con molta disinvoltura si passa sopra alla volontà delle masse, anche quando si è espressa formalmente, ad esempio con la richiesta di referendum sui tagliandi-lavoro, quella forma di retribuzione veramente poco impegnativa per chi utilizza il lavoro, senza ferie, senza sicurezza nella malattia e in gravidanza, senza limiti d’orario di lavoro, senza garanzie di qualifica, insomma senza vera responsabilità sociale. Si era chiesto un referendum sulla legge che li prevedeva. Si sono raccolte le firme sufficienti perché fosse indetto. Allora si è cambiata la legge e si sono aboliti i tagliandi-lavoro. Il referendum, così, non si farà più. Ma dopo poco tempo, mesi addirittura, li si vuole reintrodurre con un'altra legge. Così per ottenere che la questione venga sottoposta al voto popolare bisognerebbe raccogliere le firme non una, ma due volte. 
  Si parla di queste cose e si viene presi per agitatori sociali. Ma in effetti è proprio questo che occorre diventare. Il quieto vivere non ripara le masse nei conflitti. Se non si agitano soccomberanno, avranno la peggio. E’ sempre andata così. Nei conflitti vengono strumentalizzate, ideologizzandole, perché le guerre devono pur essere combattute da qualcuno, qualcuno deve rischiare la pelle e tutto ciò che ha e che è,  ma di solito le combatte veramente chi ha solo da rimetterci, comunque vadano le cose. La storia ce lo insegna. Così la Festa della Repubblica, che si celebra il 2 Giugno, non dovrebbe essere centrata su una parata militare. Si celebra la scelta del popolo italiano, il 2 giugno 1946, di essere una repubblica, da regno che era. Questa scelta fu possibile solo con il ritorno della pace, che era avvenuto circa un anno prima. Fu allora che, finalmente, il popolo fu ascoltato. Si era conquistato il diritto ad esserlo, cambiando profondamente, in un processo che era stato propriamente una conversione di massa. Non era scontato che ci si riuscisse dopo decenni di indottrinamento in senso contrario. In Germania, ad esempio, il processo fu molto più lento. In Italia, però, c’erano le premesse per riuscirci più rapidamente. Non fu un caso che dal 1946 al 1994 la politica italiana sia stata dominata da un partito cristiano, ispirato alla dottrina sociale.
  Di solito la democrazia viene inquadrata in un orizzonte di tipo nazionalista: da noi quello, richiamato nell’inno nazionale, dei fratelli d’Italia. E’ già molto, naturalmente, in una nazione che a lungo fu divisa in tanti staterelli e che solo di recente ha conquistato una lingua comune. Si capì che divisi  si contava di meno in campo internazionale. Ma ora questo non basta più. Si deve ragionare su scala globale e in questo si è favoriti dal fatto che i costumi dell’umanità si sono molto ravvicinati negli ultimi cinquant’anni. Viaggiamo di più, sappiamo di più. Il problema è quello di incontrarsi  veramente per suscitare un movimento mondiale che potremmo definire della pace  e del lavoro. Una potenza così c’è già ed è appunto, attualmente, la nostra Chiesa. Nella quale tuttavia le dinamiche democratiche sono solo allo stato embrionale. C’è molto da fare. E si può cominciare da realtà locali, come quella della parrocchia.
  Fare tirocinio di democrazia globale  richiede una visione religiosa, che consenta di pensare in grande. Essa permette di porsi dal punto di vista del Cielo. Ma richiede anche la pratica dei valori democratici, prima ancora che dei metodi  democratici. In parrocchia sembra che  la gente conti poco, che ci sia o non ci sia in fondo non è così importante, le cose vanno avanti lo stesso, e infatti partecipa poco. Viene più che altro da spettatrice. Invece la democrazia esige quel tipo di giustizia che viene definita giustizia partecipativa: occorre fare qualcosa, impegnarsi, contribuire al lavoro collettivo, non si tratta solo di alzare la mano o di infilare una scheda in una scatola per votare. E’ partecipando  che si conquista il diritto ad essere considerati, a contare veramente. In una dinamica così, l’autorità del parroco virerà progressivamente, di fatto, da quella di un funzionario locale di un principato religioso a quella di un presidente di assemblea. A partire dal tirocinio locale di democrazia globale le cose possono cambiare.  E’ da realtà così che sono emersi molti dei capi politici democratici di oggi in Europa occidentale. Non è come negli Stati Uniti d’America, in cui  di solito  si riesce a salire al vertice solo se si è molto ricchi e, in genere, da diverse generazioni. Si tratta di riprendere quel lavoro di formazione che in una realtà come l’Azione Cattolica si è sempre fatto, dalla sua fondazione, ripensandolo, tuttavia, per la realtà globalizzata di oggi.

58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi vitali

    Negli anni ’70, in Italia si visse un periodo di crisi sociale, politica e religiosa, ma non si era d’accordo nell’individuarne le cause e nel prevederne le prospettive. Si chiedeva consiglio ai sociologi, i profeti dei tempi moderni, e loro rispondevano. Mio zio Achille era uno di loro. C’era chi si aspettava molto dal nuovo capitalismo che cominciava ad essere osservato, quello che oggi domina il mondo; c’era invece chi confidava ancora di poter trasformare la nostra società secondo i principi del socialismo; c’era chi voleva innanzi tutto liberare le persone dalle costrizioni sociali: mio zio sviluppò una teoria che vedeva nella crisi dei mondi vitali, i luoghi sociali in cui si produce il senso personale e collettivo della vita, l’origine dei problemi. In questa visione la dimensione giusta per ripartire era a livello locale, di prossimità.
  Oggi tutti sono d’accordo sulle cause della crisi e sui suoi sviluppi. Si sa come andranno a finire le cose. Ci si divide tra chi ritiene questo processo ineluttabile, come lo sono i terremoti e le eruzioni vulcaniche, e pensa che non resti che cercare di adattarvicisi, e chi ancora vorrebbe reagire per cambiare il corso degli eventi. Alcuni, e tra essi gli autori dell’enciclica Laudato si’, pensano che sia in questione la sopravvivenza dell’umanità, che quindi, procedendo così come si sta facendo, si andrà a finire molto male; altri prevedono solo la fine di forme sociali che sembravano molto radicate e che invece si stanno rapidamente sfaldando. Le fini dei mondi sociali non sono mai indolori. Negli scorsi anni ’70 si era però ottimisti sulle prospettive: dalla fine del Settecento i cambiamenti sociali avevano prodotto, sia pure attraverso percorsi piuttosto travagliati e in particolare conflitti accesi, miglioramenti di massa, un aumento del benessere, almeno tra gli europei, quelli del nostro continente e quelli della colonizzazione delle altri parti del globo. Le previsioni di oggi non vanno in quel senso. In particolare, si è convinti che, se anche si sopravvivrà, ci sarà molta meno libertà. Si costruiranno ingranaggi sociali e  giuridici che incastreranno gli individui in ruoli molto definiti; le società saranno dominate da oligarchie molto ristrette, che accentreranno il controllo della gran parte delle ricchezze e che troveranno sempre minori limiti. Già oggi è sensibile questa nuova situazione. I sociologi osservano che il nostro profilo prevalente è quello di consumatori: le nostre scelte sono in gran parte orientate da tecnologie su base psicologica, da persuasori che ci fanno sentire a disagio, strani, se non seguiamo certe abitudini.
  La progressiva mancanza di libertà incide sulla tradizione religiosa e questo benché storicamente la religione sia apparsa spesso in antitesi con la libertà delle persone, come un sistema molto costrittivo di limiti sociali controllato da oligarchie gerarchiche con  molte pretese. La modernità  è stata quindi vista come un processo di liberazione  da questo giogo. In realtà la possiamo concepire come un processo di sostituzione  di un ordine con un altro, anch’esso molto pervasivo. Ma al fondo delle esigenze religiose c’è un’esigenza di libertà: si pensa infatti che ci sia una verità  sulle persone e la loro vita che rende liberi. Essa è stata all’origine di tutti i movimenti di riforma  religiosa. Ed anche all’origine delle democrazie contemporanee, che si basano sull’idea religiosa che si sia tutti creati  uguali. Essa risultava evidente ai rivoluzionari statunitense i quali nel 1776 proclamarono:
“Riteniamo verità evidenti che tutti gli esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità”.
  Questi principi giustificavano, secondo loro, non solo la secessione dalla monarchia europea di origine, ma anche una rivoluzione  sociale.
 Evidente  significa che non ha bisogno di essere provato. Quelle verità lo sono ancora? Fino agli  scorsi anni ’70 lo sembravano ancora. Ma la cultura sociale è molto cambiata. E certe convinzioni sono messe a dura prova della realtà contemporanea, in particolare dai rimescolamenti di popoli prodotti dalle migrazioni caratteristiche della globalizzazione, per cui dall’altra parte del mondo non ci vengono sono le merci di uso comune, ma anche altre vite umane. Una realtà che, alla fine del Settecento, quando iniziarono i processi democratici contemporanei, con difficoltà si poteva immaginare e prevedere in tutti i suoi sviluppi. I rivoluzionari statunitensi che ho ricordato non avevano difficoltà, ad esempio, ad importare e impiegare manodopera schiava nelle loro aziende agricole.
 In definitiva la nostra fede fa resistenza  agli sviluppi della globalizzazione che tutti più o meno prevedono. La prospettiva di un’umanità ridotta a un formicaio non soddisfa da un punto di vista religioso. Si pensava di farne un’unica famiglia.  Ecco quindi che nell’enciclica Laudato si’  troviamo espresse idee che hanno una portata rivoluzionaria rispetto alla mentalità corrente. Si va be’, rivoluzione, ma chi la farà poi? Non si vede all’opera un agente rivoluzionario. Le nostre collettività, in genere, sono state dalla parte di chi dominava, hanno cercato accordi, accomodamenti, hanno sacralizzato  più o meno tutti i poteri che ambivano ad esserlo. Va a finire che anche adesso finirà così. Ma non sarà così semplice farlo. Perché si dovrebbe rinunciare a cose essenziali, ribaltare la dottrina. Ci si sta pensando? L’altro giorno, su Avvenire, è sorta una polemica sul personalismo, che  è la via alla democrazia e alla libertà originata nell’ambito della nostra fede e che gente della nostra fede ha inserito tra i principi fondamentali della Costituzione vigente: c’è chi vorrebbe abbandonarlo e chi invece replica che occorre praticarlo fino a tutte le sue conseguenze.  Fa difficoltà attribuire i diritti delle persone proprio a tutti  gli esseri umani; non potendo negarglieli, perché questo modo di fare è ancora vissuto come sconveniente,  si pensa di abbandonare l’idea di persona  e il personalismo. 
Mio zio Achille, quando gli chiedevano che fare, dava ricette concrete. Suggeriva, ad esempio, di fare i congressi di partito e delle grandi associazioni in piccoli paesi, in modo da pervaderli totalmente suscitando  o rafforzando realtà di mondo vitale. Nel 1986 il congresso nazionale del partito cristiano, all’epoca ancora egemone, si tenne a Cervia, in Romagna, proprio nella piazza davanti casa sua. Oggi gli esperti che ci chiariscono con molta precisione le cause della crisi, al dunque non ci sono utili per definire vie di resistenza e di cambiamento. E’ il neocapitalismo all’origine di tutto, ma loro, in sostanza, ci dicono di insistere su quella strada, quella della competizione e dello sfruttamento. Alcuni pensano di reagire chiudendosi  in comunità corazzate: è questa la via che molto a lungo, fino all’ottobre del 2015, si è seguita in parrocchia. Ora la gente  è molto sospettosa, teme di venire catturata, ha ripreso a venire numerosa, ma, a qualsiasi proposta di impegno, risponde in genere come Trump al Papa durante la visita di qualche giorno fa, che ci penserà  tra qualche giorno. Rivitalizzare le realtà di mondo vitale del quartiere può essere una buona prospettiva. Se la gente ritrova il senso della vita si impegnerà nuovamente in un lavoro comune. Non va sottovalutato l’impatto che un quartiere può avere nella vita cittadina. Migliaia di persone sono una massa critica, vale a dire sufficiente per innescare una reazione sociale significativa, ad esempio a influenzare l’offerta di mercato, quindi l’economia locale, orientando i consumi. In definitiva si apre la prospettiva di una vita più bella. In particolare per i più giovani. Quando i genitori chiedono loro se vogliono proseguire sulla via della Cresima, spesso i bambini tentennano. Non sanno di che si privano. Del resto sono bambini. E  i genitori lo sanno?
  La prima cosa su cui riflettere, in un’ottica di rivitalizzazione di mondi vitali, è quella che viene definita giustizia partecipativa. E’ molto importante nei processi democratici. Chi si riconosce, oggi, in debito  di partecipazione? Eppure, a pensarci bene, è chiaro che siamo addirittura insolventi in questo campo. Ognuno se ne sta un po’ sulle sue. E’ il consumismo che ci spinge a questo. Un consumatore isolato è indifeso, malleabile: è questo l’ideale per i tecnologi persuasori. Non c’è critica sociale se si rimane isolati. E’ questo il limite gravissimo della democrazia digitale  che si vorrebbe sostituire a quella formale, basata sulla tradizione democratica. La sensazione di libertà che ciascuno ha digitando avanti al proprio pc è falsa. E’ solo incontrandosi  che ci si libera. Questa è appunto la via della religione. Ancora oggi, nel nostro quartiere, il suono della campane chiama alla vita comune.