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Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente il secondo, il terzo e il quarto sabato del mese alle 17 e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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Il sito della parrocchia:

https://www.parrocchiasanclementepaparoma.com/

giovedì 29 marzo 2018

Arrivederci a lunedì!

Arrivederci a lunedì!

  Da oggi iniziano per noi giorni molto intensi, i Tre Giorni più importanti della Settimana Santa, quella della Pasqua cristiana. E' un tempo che va vissuto in chiesa, tra gente vera, nella meditazione, nel raccoglimento, nella preghiera liturgica,  non nel mondo virtuale del WEB. Per questo, sospendo l'inserimento dei post fino a lunedì prossimo. Arrivederci a stasera, alle 19, nella chiesa parrocchiale, per la Messa della Cena del Signore!
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


mercoledì 28 marzo 2018

Religione: fatto sociale o realtà soprannaturale?


Religione: fatto sociale o realtà soprannaturale?

    Nel brano di Esperienze pastorali  di Lorenzo Milani che ho pubblicato ieri c’è l’immagine di una religiosità chiusa  e fortemente condizionata dalle relazioni sociali intorno e dall’esteriorità, quella dei parrocchiani  di montagna, e quella della città, più  aperta  alla critica interiore e sociale. E’ una situazione caratteristica dell’Italia rurale degli anni Cinquanta o la troviamo anche adesso, in altri contesti?
  Se ci si ragiona francamente, la religiosità appare sempre un fatto sociale, in ogni caso condizionata dall’ambiente umano in cui si vive, sia che esprima anche una critica sociale che nel caso contrario. Sia nel caso di religiosità chiusa che di religiosità aperta. Distinguere natura e soprannaturale è sempre molto difficile. Siamo convinti che quando ci raduniamo con spirito religioso il soprannaturale sia tra noi, ma ogni esperienza sociale manifesta dei limiti in questo campo, se la si depuri di una certa emotività che sempre pervade la religiosità, sia quella individuale che quella di gruppo, e in modo maggiore quest'ultima. Nel passato si è visto il soprannaturale in esperienze sociali che a noi oggi fanno orrore. Ma le giudichiamo secondo la cultura della nostra epoca. Fossimo vissuti a quei tempi, sarebbe stato probabilmente diverso.
  Nelle Scritture originate dalle nostre prime collettività di fede troviamo piuttosto forte la critica di una religiosità che faccia molto conto sull’apparenza e sul rito. La compassione dovrebbe prevalere. Questo può consentire di recuperare alla vita sociale quelli che ne sono stati emarginati per vari motivi, compresi quelli che lo sono stati per aver trasgredito delle regole sociali, come sono anche quelle religiose. Questa  è una visione alternativa della società, una società, in questo senso, di un altro mondo. Qui vi vediamo una realtà soprannaturale. Non si pensa di poter con le nostre forze fondare questa realtà già qui ora e completamente. Nelle Scritture c’è infatti l’immagine di una città  che alla fine dei tempi ci scenderà dall’alto, piena di luce, quando il mondo di prima sarà finito. Questo ci può stimolare a riconoscere i limiti di ogni esperienza religiosa e, in primo luogo, la molta emotività che può ingannarci, portandoci a vedere il soprannaturale dove tutto è umano.
  Le esperienze chiuse in un ambiente e nel rito non esprimono di solito critica sociale se non appartandosi e quindi, anche se si manifestano con costumi sociali diversi da quelli della società intorno, con spirito di setta, accettano in fondo  ciò che c’è. Disperano di poterlo modificare ed è per questo che si chiudono. La loro unica pretesa è di poter vivere certi aspetti sociali in un certo modo, di poter seguire certi riti, di avere una certa autonomia. Concesso questo, se ne stanno da una parte senza interferire con ciò che c'è intorno. Ma anche quelle aperte  possono accettare quello che c’è, e allora diventano religioni civili, a supporto del sistema sociale corrente, visto come necessario per il miglioramento dell’umanità in linea anche con i valori religiosi. Ma la religiosità aperta, se prende sul serio il proposito di superare l’emarginazione, può anche esprimere una critica sociale: lo fa quando è espressa da gruppi sociali che soffrono l’emarginazione. Lorenzo Milani si muoveva su questa strada, essendosi trovato, per compassione e per decisione emarginante dell’autorità religiosa, a condividere la situazione di gruppi di emarginati, lui che proveniva da uno strato privilegiato della società. Pensava a una religiosità con efficacia liberante. Essa, nella sua visione, richiedeva però un progresso culturale e, innanzi tutto, l’istruzione. Richiedeva un impegno, non sarebbe venuta per virtù soprannaturale dall’alto, se non come ispirazione: come scrissero un gruppo di resistenti lombardi di ispirazione religiosa,  non ci sono liberatori ma persone che si liberano.
   Come è possibile tenere insieme tutte queste varie forme di religiosità e, innanzi tutto, ci si deve proporre di tenerle insieme o, come alcuni sostengono e anche Milani sosteneva, alcune vanno superate? E superarle significa anche cancellarle, anche con il bene che contengono, come inevitabilmente accade in ogni esperienza sociale, in cui il male e il bene sono sempre compresenti? In un ambiente omogeneo il problema si sente meno. Quando esperienze religiose diverse, in particolare chiuse e  aperte, nei vari modi in cui possono esserlo, sono compresenti, la faccenda si complica. La coesistenza è difficile e, talvolta, impossibile. Per vie di fatto si cerca di prevalere. Dietro vediamo due società in lotta. Ritirarsi dal conflitto può significare acquiescenza a ciò che non va e che fa soffrire. Fece bene il Milani ad accettare di farsi confinare in una parrocchia di montagna? E che altro avrebbe potuto fare? L’autorità religiosa gli lasciò quel piccolo spazio, da dove fece molto rumore, ma arrivò comunque una condanna sociale, con un processo per un fatto, la difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, che negli anni successivi fu riconosciuto legittimo. La questione originò da un polemica tra preti, in particolare tra Milani e i cappellani militari. La vicenda dimostra una certa integrazione, all’epoca, tra politica  e religione, in società, quindi una religiosità con aspetti di religione civile. Altri seguirono una via diversa dal Milani, ma non ebbero, mi pare, una sorte migliore. Il dissenso si paga sempre con l’emarginazione sociale e la condanna.
 In tutto questo dov’è la linea di demarcazione tra natura e soprannaturale? C’è chi consiglia di vederla non nella nostra emotività, per cui a volte superficialmente giungiamo a dire “E’ qui!”,  ma nella compassione per cui gli altri, in particolare quelli che stanno peggio, non ci sono indifferenti e ce ne prendiamo cura, al modo del samaritano della parabola. E’ la religiosità della misericordia.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli  


martedì 27 marzo 2018

estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202


estratto da: Lorenzo Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957, pagg.191-202, attualmente in commercio, €19,00

«O se siete voi stessi a dirmi sempre come mi disse quel gesuita: “Parli troppo alto per il tuo popolo. Il popolo non è capace di distinguere né di ragionare e così la tua parola porta più confusione che chiarezza”.
 Un’affermazione che potrà anche essere vera, ma io rifiuto di adattarmi alla mentalità che l’ha generata. Una mentalità di resa, di accettazione passiva di uno stato di fatto che ognuno ha compreso, ma che ha ormai archiviato come cosa di ordinaria amministrazione: il popolo è inferiore, il popolo è infante, per parlargli bisogna abbassarsi a lui, scaldargli la pappina perché non ha denti per il Pane. A un popolo che è cristiano da 20 secoli volete parlare come S.Paolo a città evangelizzate da pochi giorni? e volete evangelizzarlo stando al piano di sopra? e vi meravigliate se poi il popolo non accetta questa degnazione?
 Ma state tranquilli, non sarò io a consigliarvi di scendere a lui. Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà con pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo.
 Ma prima di entrare sull’argomento sentite ancora quel che mi scrive un prete di montagna:
 “…i cittadini li spregiano e hanno quasi ragione perché sono spregevoli perfino a me che sono il loro prete e li amo solo perché me la prendo col mondo e non con loro se sono così.
 Me la prendo con la storia, coi secoli, col dislivello culturale, con la società che ne è responsabile e così riesco a perdonarli, a aver pietà di loro, a amarli come si amano dei poveri malatini, degli infelici da Cottolengo in cui si stenta a riconoscere il volto umano. Come si ama un animale domestico. Sì, m’è scappato detto ormai e lo ripeto: come animali inferiori.
 A vivere nella solitudine, senza il contrappeso della cultura o del pensiero o di un’intensa spiritualità, sono diventati davvero animali inferiori.
 E se anche questa parola pare una bestemmia al nostro esser tutti figlioli di uno stesso Padre, lo dico per esprimere quanto l’immagine divina sia seppellita in loro sotto un cumulo di sovrastrutture che non sono né divine né umane.
 Io non te li posso neanche descrivere perché sono indescrivibili e perché li amo troppo.
 Dovresti vederli lì impalati sul sagrato della chiesa, tutti ripicchiati nei vestiti nuovi, tutti impensieriti per la piega dei calzoni e dei capelli tutti intenti a studiare i gesti degli altri per non farne uno di più o uno di meno.
‘Perché siete venuti stasera?’.
‘Non ci vuole a vespro?’.
‘Ma perché proprio stasera?’.
 Lo sanno, ma non rispondono. Son venuti perché oggi è il titolare e tutti vengono dunque bisogna venire.
‘Ma che vu gli fate a Dio, voi che mancate sempre alla Messa? Venite a un vespro solo perché vengon tutti? Ma  decidetevi una volta per sempre! Siete giovani!  Vorreste diventare anche voi come i vostri babbi, come i nonni, come da mill’anni fanno i vostri nonni; quel che fanno gli altri e basta, non un capello di più non uno di meno. Siete cristiani o non siete?’
‘O non siamo cristiani? Che siamo? Ebrei?’
 E’ una risposta buttata lì che non è una risposta, è un rifiuto di ragionare, di scendere da quella piattaforma ormai intoccabile. Posso parlare per ore, posso dire cose appassionate da far venire i bordoni giù per la schiena.
 I volti gelidi mi dicono che le mie parole non passano neanche la soglia delle orecchie.
 C’è di mezzo un rifiuto preconcetto all’ascolto, al ragionamento, alle decisioni.
 Non sono uomini e non vogliono esserlo.
 Alla loro età i giovani operai sono capaci di aprirsi a tutto, ma soprattutto al pentimento dei propri peccati oppure ai problemi sociali.
 In montagna il muro.
 E’ cosa che tra i preti si sente lamentare da per tutto.
 Tutti sanno che se un prete di città si trovasse in una qualsiasi chiesa di montagna a confessare i giovani e facesse loro la più pudica domanda oltre il terzo Comandamento, guai a lui.
 A lui i giovani risponderanno di no, che tutto va bene, che hanno già detto tutto, fingeranno  perfino di non capire cosa voglia dire, lo faranno passare da imbecille, da patologicamente curioso.
 A casa poi lo bolleranno: ‘Da quel prete non mi confesso più, vuol saper troppe cose’. Ma a lui così non diranno mai e a confessarsi torneranno egualmente.  E seguiteranno a fissarlo coi loro occhi gelidi, impenetrabili come se lo giudicassero. Occhi che non s’abbassano, occhi senza pudore, senza dolore, senza esame di coscienza, occhi a muraglia.
 E se il prete sarà costretto a battere in ritirata, a vergognarsi d’aver osato, a domandarsi se forse non possa esser vero, se forse la montagna non sia un’isola di purezza in un mondo impuro, per poi venire a sapere il giorno dopo le più turpi cose dalle chiacchiere dei bambini, dagli incidenti estremi, dalle chiacchiere di chi vuol vendicarsi di un vicino. Tutta la rosa dei peccati è rappresentata sui monti, dai più patologici ai più normali, in tutte le età, in tutte le famiglie.
 E il prete lì in quella bara che è un confessionale dove non palpita la vita vera di nessun peccatore. Dove ognuno che viene dice solo: ‘Ho mandato quale ‘resia, ho perso qualche Messa’ ed è lo stesso come se venisse a gridargli in faccia:‘Non credo in Dio, non credo in questo Sacramento, non me ne importa di esser perdonato, non penso di aver nulla da farmi perdonare, non mi fido di te, ti confesso le bestemmie perché le bestemmie sono cosa insignificante, ma non ti confesserò nulla che sia vita mia vera di quella che mi preme e che non deve interessare né a te né a Dio, vengo perché son sempre venuto, vengo perché a Pasqua bisogna venire, vengo blindato, impenetrabile, non mi scoscenderai neanche con le mine’.
 Ah sapessero almeno fare questo discorso crudele. Sapessero  farlo almeno dentro di sé, ma non sanno. Son muti anche con sé stessi. Infelici!
 E noi bisogna insaccare il capo e tacere, bisogna rincantucciarsi nella preghiera, nell’esame di coscienza nostro, ripetere al Signore la nostra fede nella libertà dell’uomo, nella libertà della Grazia di Dio, nella nostra incapacità a comprendere il mistero della salvezza individuale in cui Dio solo legge.
 Bisogna stare in confessionale come sta un certosino nella sua cella, a esercitarvi l’identico lavoro di distacco dalle cose terrene, dalla pretesa di intervenire  terrenamente  nelle cose terrene, dalla pretesa di conoscere qualcosa, oppure di pensar qualcosa o di decidere qualcosa o di fare qualcosa.
 Sì, così facciamo perché siamo buoni, ma possibile che Dio ci chieda questo solo? Possibile che ci vesta da parroci per poi volerci trappisti? Che ci metta in mano dei mezzi solo perché si rinunzi a usarli?
  Non c’eri te quel giorno del Corpus Domini alla Messa delle 11 quando col cuore ormai colmo di sofferenza e di affetto parlai al mio popolo.
 Dissi parole che i loro bambini intendevano a una a una e nel loro insieme. Non parlai un linguaggio da intellettuale o indecifrabile. Mi credi tanto stupido e tanto letterato da non sapere (dopo anni che vivo tra loro) allineare solo parole facili, aperte, senza segreti, senza pretese. Parole che non suppongono altra cultura precedente. Parole identiche a quelle che essi si scambiano tra loro tutti i giorni per parlar di vacche, del campo e della casa. Alcuni mi hanno inteso infatti e m’hanno odiato. Altri non potevano neanche intendermi, poveretti. Intendevano le singole parole e le singole proposizioni. Ma concatenarle in mente, seguire un filo di pensiero, questo è un’altra cosa.
- ‘Prendete e mangiate’ vuol dire far la Comunione.
‘Fate questo per ricordo di me’ vuol dire Messa.
Messa e Comunione le due cose che voi lasciate sempre, o quasi, le ha comandate il Signore chiaro chiaro.
 Della Processione il Signore non ha parlato. E’ un’invenzione d’uomini. Una piccolissima cosa. Non  è necessaria. Non è nulla a petto di quell’altre due. Ecco voi ora volte ancora una volta venire  in massa alla Processione. Volete parteciparvi in cappa, portare i segni e il baldacchino, volete far atti di onore al Signore, a quel Signore che vi rifiutato poi di obbedire nelle più semplici e serie cose.
‘Prendete e mangiate’. ‘No’.
‘Chi non mangia il mio Corpo non avrà la Vita Eterna’. ‘Non ce ne importa’.
‘Fate questo  in ricordo della mia morte per voi’.
‘No, non ci s’ha usanza, si passerebbe per strani. Noi si vien la sera in cappa a reggere lo stendardo e gli altri segni’.
 Ma figlioli, io n on vi chiedo poi tanto. Non  vi chiedo di venire a confessarvi, non vi chiedo di fare la Comunione, non vi chiedo di venire a Messa.
 Siete adulti, se queste cose non vi vanno, se non le intendete, girate al largo.
 A me col venirci, finché non le intendete, non fate piacere certo. Al Signore nemmeno, io credo.
 E dunque fatemi solo questo di non venire neanche a turbarmi la pace della Processione. Lasciatemici andare coi vostri bambini che son fratelli miei davvero e m’intendono.
 Lo stendardo se non lo porterete lo lasceremo lì al muro. Domani quando i vostri bambini saranno più grandi e lo potranno, lo porteranno loro.
 Per ora lasciateci girare così per questi boschi senza stendardo e senza baldacchino, soli, pochi, piccini, ma cristiani.
 Io e loro che amiamo il Signore, e che osserviamo per quanto possiamo i suoi grossi comandamenti. O per lo meno: che desideriamo osservarli, e ci pentiamo quando non ci riesce e si cerca nei Sacramenti il suo perdono. Lasciateci in pace a compiere con gioia anche questa cosa che il Signore non ci aveva chiesta, ma che noi gli regaliamo in più  come segno d’affetto-.
 Mi rispondono con l’unica parola che sanno dire: il broncio.
 Un broncio, cieco sordo e muto.
 E poi con quell’altra arma segreta di chi non sa parlare: il fatto compiuto. Preparare ogni cosa, anche le cose più semplici, nell’ombra del segreto e poi farla di sorpresa e attendere che tu la sappia da altri o che tu la veda da te quando ormai non c’è più nulla da farci e le lagnanze e le parole che tu potrai dirci sopra con la tua arte infernale batteranno in un muro solido come l’acciaio: è tardi. Il fatto compiuto. L’arma del gatto. L’arma degli infelici.
 Per esempio quella sera, dopo un discorso così chiaro e così offensivo, quando ti saresti atteso un deserto in processione, invece erano lì, s’erano spartiti le cariche come sempre, s’erano messe le cappe. Non ne mancava uno. Non ce ne fu uno che stesse a casa anche solo a mostrarmi che la mia parola, di bene o di male che fosse, avesse mosso o cambiato qualche cosa. Guai se la parola avesse questo potere! Dove mai s’andrebbe a finire?
 Ma fosse tutto qui il male, fossero chiusi solo al pensiero e avessero un cuore traboccante d’amore.
 Ma non hanno neanche questo. Son chiusi in sé stessi, nell’egoismo più elementare. L’egoismo dell’infante e della belva. L’egoismo che giunge all’amore per i figlioli. Ci giunge per istinto come nel bruto. Non conosce l’amore per altri. Neanche per i genitori.  Perché in questo l’istinto vale poco (e difatti c’è occorso un comandamento, mentre sull’amore materno un comandamento sarebbe parso superfluo anche a un’elefantessa).
 Questo egoismo da giungla è tutto ciò che si può trovare in un uomo quando non l’ha raggiunto l’influsso vivificatore della parola, cioè del mezzo per ricevere l’apporto dei suoi simili e soprattutto quello dei suoi simili migliori di lui e più ancora quello di Un suo Simile che è Parola e che s’è fatto Carne cioè Parola Incarnata per essere Parola più convincente. E che poi ha posto un Libro come fondamento della nostra elevazione e un Magistero per l’interpretazione di quel Libro e poi dei Sacramenti che sono in sé stessi più che quel Libro e più che quel Magistero, ma che pure non si possono affrontare neanche loro senza l’anticamera della Parola (e del catechismo).
 Da tutto questo son tagliati fuori questi infelici e non solo per il loro non posseder la parola abbastanza (insisto però su questo concetto, perché son sicuro che proprio manca loro materialmente un possesso sufficiente della parola), ma soprattutto per non volerla possedere, per non volerle dar luogo nella vita, per non aver conosciuto la sua dignità vivificatrice, la sua capacità di piegare, di trasformare, di costruire.
 Forse nel subcosciente ognuno di loro sa cos’è la parola e la ragione e forse ha indovinato anche troppo ciò che la ragione può far nascere in lui.
 Forse ha già capito che se le aprisse l’anima, se la lasciasse penetrare fino a quel recondito regno dell’io dove si prendono le decisioni di vita, allora dal primo giorno in poi gli toccherebbe  differenziarsi dai suo vicini, per esempio mutare atteggiamento di fronte ai Sacramenti, oppure di fronte ai divertimenti o alla politica, fare, dire, pensare qualcosa che gli altri nel popolo non pensano, non dicono, non fanno.
 E questo gli fa paura. Perché sa che per differenziarsi occorre poi posseder la parola in modo da potersi difendere. Non sarà più come ora che fa come tutti e quindi vive proprio bene anche muto e bendato.
 Tra loro, per aver osato parlare, son guardato come un intruso. Uomo senza tatto, né gusto, né discernimento, né educazione. Un uomo che vuol parlare, un uomo che pretende che le parole corrispondano al pensiero, che costruiscano cose, che trasformino situazioni, persone, idee, usanze, turbino equilibri secolari.
Mi sopportano solo per la passione che hanno perché i loro figli vengano a scuola. Passione che è l’unico aspetto ancora umano in loro e che non cade solo perché è abbarbicata in quell’altra passione, superiore a ogn’altra, del voler scappare dai monti e rifarsi una parità sociale.
 In una famiglia modello, l’unica del popolo in cui si dica ogni sera la Corona, dove c’è una vecchietta che va a Messa ogni giorno e c’è santi a tutte le pareti (specialmente nella stalla), dove si sa storie di preti e di uffizi e si conosce i priori e i poderi di decine di chiese, dove però la Comunione è ridotta ferramente alla Pasqua e la confessione s’intende solo per quella; in questa diabolica famiglia mi provai a far notare garbatamente qualcosa.
 Mi risposero con freddezza aggressiva:
‘La nostra famiglia è rammentata da per tutto per cristiana. Lei vada da tutti i preti che ci hanno conosciuto nel Firenzuolino e da per tutto dove siamo stati. E le diranno chi siamo noi e chi erano i nostri nonni. Tutti cristiani dei primi in tutte le chiese. Ma in tant’anni che frequento la chiesa io un’osservazione da un prete non l’avevo avuta mai’.
 Vorrebbero ridurti a un funzionario.  non sopportano che tu sia uomo, non sopportano che tu voglia intervenire nel tran tran della vita, che tu voglia smuovere le cose ferme. sovvertire un ordine che si son dati e che di cristiano non ha più nulla.
 Si, insisto. Nulla. Perché cosa ci può essere  di cristiano là dove si rifiuta al prete questo diritto di avvertire, di parlare, di scuotere? Ma che dico al prete. Là dove si rifiuta alla Parola di penetrare. E al pensiero, alla ragione. Dove  si rifiuta alla Religione stessa d’entrare nei fatti della vita.
 Cos’ha di cristiano una fede che osserva il rito (e non tutto) e poi fuori di quello non vuol essere turbata in nulla? Non è questa la fede degli egiziani e dei romani? Fede in Dio senza addentellati in nessun comandamento di vita, ma solo in comandamenti di rito.
 Hanno votato per il comunismo. E i preti sono cascati dalle nuvole. E’ parso loro un mostro improvviso, imprevedibile, inspiegabile. Han pensato che certo deve essere venuto da fuori con diaboliche arti.
 Macché! Macché da fuori. Macché nuovo. Era da secoli che il loro cuore si rifiutava a qualsiasi intervento del Cristo e della Chiesa nella loro vita e ora ci meraviglieremo per questa pisciatella che è un voto?
 Fosse tutto lì il male. E invece non è che un campanello che ci avverte di cose che bastava aprir gli occhi per vederle già da tanto tempo nude e crudeli distese quotidianamente dinanzi ai nostri occhi.
 Quando un uomo viene a ‘confessarsi’ e si rifiuta di confessarsi. Quando questo rifiuto è così profondo che non c’è neanche da provarsi a interrogare perché sappiamo benissimo che non solo non confesserà i suoi peccati, ma che non si sentirà in colpa, neanche avrà quel tono umile di chi sa di aver sbagliato due volte una volta nel peccato e la seconda nel negarlo. Quando sappiamo invece che si sentirà interiormente sicuro di sé, giudice del pretino ficcanaso, parte offesa da questa curiosità ingiusta su cose che appartengono al regno intoccabile dei ‘fatti suoi’ dei fatti che non deve conoscere nessuno all’infuori di eventuali complici. Quando manca ancora anche il primo gradino del pentimento cioè il concetto di peccato (il sentirsi creatura di Un Altro che ha diritto di pórci legge e potere di punirci), quando manca interiormente anche il senso del dovere d’arrendersi a chi ci ha creati, d’umiliarsi a una volontà che è diversa, anzi spesso in contrasto, con l’usanza d’altri. Quando s’è interiormente giurato di non umiliarsi a nessuna altra legge che che quella che pone l’usanza del prossimo e che  è l’unica legge che non è ‘strana’ perché  è la legge di tutti. Quando un uomo incolto sa per sua esperienza (o crede di sapere) che tutti i diciottenne vanno in determinati luoghi, che tutti i fidanzati fanno determinate azioni, che tutti gli sposi fanno altre determinate azioni, che tutti i commercianti  dicono determinate bugie, che tutti gli uomini agiscono solo per un determinato loro interesse, allora chiama legge tutto questo  e stranezza una legge che con tutto questo contrastasse.  Allora penserà che il prete predica  quest’altra strana legge solo per dovere professionale, ma senza la minima convinzione, perché è un uomo  di mondo anche lui e sa bene che il mondo non è al quel modo. Quando un uomo ‘ragiona’ così, cioè non ragiona e non si vede spiragli per cui farlo salire a un’atmosfera più respirabile per noi, allora non bisogna confessarlo, né chiamarlo a una predica, né dargli in nessun modo la tessera di cristiano, né illuderlo in nessun modo che tra lui e la Chiesa, tra lui e Dio  ci sia possibilità di accomodamento. Perché accomodamento non di sarà se non nel miracolo.
Ma quando parroci, cioè corresponsabili terreni di questo groviglio di irrazionalità ci presenteremo a Dio a chiedergli il miracolo della conversione dei contadini, non ci sentiremo forse rispondere che il miracolo verrà per i contadini innocenti perché bestioni, perché incapaci di rendersi conto di qualcosa, ma non verrà per il prete che ha avuto inestimabili doni di intelligenza e di parola e di cultura e non li ha usati per farne parte ai bestioni né per correggere il proprio agire pastorale?
 Concludendo: io non sono fratello di gente che si fa un’etica della bugia, della chiusura, del rifiuto del ragionamento, dell’abbassarsi metodico alle usanze, all’eguaglianza col prossimo. Di gente che vive nel terrore dei vicini, di gente che non sa, non dico fare, ma neanche seguire un ragionamento filato e perciò ignora ogni principio fuorché quell’unico principio di far come gli altri. Di gente per cui in predica io non posso neanche usare l’aulica formula cappuccinesca: ‘Fratelli,  i nostri peccati…’. Quali? Io non ho peccati in comune col mio popolo. I miei peccati e i suoi non sono neanche parenti. I suoi atti non sono né bene né male. Non sono nulla.
 Tra una gente senza dolore dei propri peccati, anzi peggio tra una gente senza peccati e me non c’è nulla in comune e ci manca anche il linguaggio  col quale qualcosa di comune se non c’è si crea.
 Ora, se questo qualcosa di comune si dovrà creare, io mi rifiuto di crearlo al loro livello.
 Son loro che devono diventare miei simili e miei pari.
 Ecco perché per ora non faccio con convinzione altro che scuola.
 Non che io abbia della cultura una fiducia magica, come se essa fosse una ricetta infallibile, come se i professori universitari fossero automaticamente tutti più cristiani e avessero il Paradiso assicurato mentre il Paradiso fosse precluso agli indotti pecorai di questi monti.
 E’ che i professori se vogliono possono prendere in mano un Vangelo o un Catechismo, leggerli e intenderli. Dopo poi potranno fare il diavolo se vorranno: buttarli dalla finestra o mettersi nel cuore, s’arrangino, se sceglieranno male sarà peggio per loro.
 Ma qui è diverso. Fai conto che qui io mi trovi in un istituto pieno di sordomuti non ancora istruiti. Che ne diresti se pretendessi di evangelizzarli senza aver prima dato loro la parola? I missionari dei sordomuti non fanno così. Fanno suola della parola per anni e poi dottrina poche ore. E il loro agire è logico, obbligato, perfettamente sacerdotale.
 Domani poi, tra questi sordomuti ritornati alla luce della parola, ci saranno santi e dannati. E quel giorno la responsabilità della salvezza ricadrà su ognuno di loro come è nell’economia normale della Salvezza. Ma se invece mi rifiuto di creare questo ponte, allora per loro non ci sarebbe che il Limbo dei bambini e per me il castigo di chi non ha fatto il suo dovere.
 Lo stesso avviene quassù in montagna: con la scuola non li potrò fare cristiani, ma li potrò fare uomini; a uomini potrò spiegare la dottrina e su 100 potranno rifiutare in 100 la Grazia o aprirsi tutti e 1000, oppure alcuni rifiutarsi e altri aprirsi. Dio non mi chiederà ragione del numero dei salvati nel mio popolo, ma del numero degli evangelizzati. Mi ha affidato un Libro, una Parola, mi ha mandato a predicare ed io non me la sento di dirgli che ho predicato quando ho la certezza che per ora non ho predicato, ma ho solo lanciato parole indecifrabili contro muri impenetrabili, parole di cui sapevo che non sarebbero arrivate e che non potevano arrivare.
 Anche i miei predecessori lo sapevano e han seguitato ugualmente a parlare al muro che si vedevano intorno. Hanno sperato di potersi presentare al Signore con titolo legale: ’Ho predicato a dei battezzati, non mi hanno ascoltato’.
 Mi dispiace di aver dovuto toccare questo tasto delicato e crudele, ma bisogna ben chiarire le cose con freddezza di chirurgo. Auguro loro che Dio li accolga nella sua infinita misericordia e si contenti. Ma non mi contenterò io, dinanzi a lui, ormai che ho inteso, di un gioco di parole e di legalità osservate di cui la mia coscienza d’uomo, di cristiano e di sacerdote non si appaga.
 Dopo queste premesse mi pare di poter dire che la scuola, in questo popolo e in questo momento, non è uno dei tanti metodi possibili, ma mezzo necessario e passaggio obbligato né più né meno di quel che non sia la parola per i missionari dell’istituto Gualandi o la lingua per i missionari in Cina.
 Domani invece, quando la scuola avrà riportato alla luce quel volto umano e quella immagine divina che oggi è seppellita sotto secoli di chiusura ermetica, quando saranno miei fratelli non per un rettorico senso di solidarietà umana, ma per una reale comunanza d’interessi e di linguaggio, allora smetterò di far scuola e darò loro solo Dottrina e Sacramenti.
 Per ora questa attività direttamente sacerdotale mi è preclusa dall’abisso  di dislivello umano e perciò non mi sento parroco che nella scuola (Nota :Ho detto hic et nunc e nulla più. Quelli dunque che hanno popoli diversi in cui i problemi si presentano in modi diversi mi lascino dire. Ciò che dico servirà per quelli che intravedono nel loro popolo situazioni analoghe a questa).
  E credi, non è più solo un progetto o una speranza. Ho già visto qualcosa. In questi pochi anni da che son qui, la scuola ai giovanotti ancora brancola nel buio di una distanza secolare di civiltà diverse. Ma coi bambini è un’altra cosa.
 Con loro parlo ormai davvero come a miei pari. E non c’è cosa ch’io voglia dir loro  alta o bella o nuova e ch’io non riesca a far giungere alle loro menti. E non c’è cosa che abbiano in mente e che non riescano a spiegarmi.
 Tre anni di grammatica e di lingua con loro mi son bastati. E ora vibrano a tutto quel che pare a me, alla cultura, al pensiero, alla fede.
 E già guardano i loro genitori con una pietà accorata di giudici e di superiori. Si sono affacciati ormai al mio mondo, sono ormai di quelli che la tua ispettrice chiama ‘spostati’. Sì, spostati ormai per tutta la vita, non torneranno più indietro”.»

lunedì 26 marzo 2018

Gridino i misericordiosi!


Cari giovani, sta a voi la decisione di gridare […].Se gli altri tacciono, se noi anziani e responsabili – tante volte corrotti – stiamo zitti, se il mondo tace e perde la gioia, vi domando: voi griderete? Per favore, decidetevi prima che gridino le pietre.
[Dall’Omelia di papa Francesco nella Messa della Domenica della Palme del 25 marzo 2018, in occasione della 33° Giornata Mondiale della Gioventù]

  Le grandi manifestazioni giovanili dell’altro giorno negli Stati Uniti d’America contro la legislazione troppo permissiva sulle armi sembrano rispondere all’appello del Papa.
  In religione in genere si diffida dell’agitazione dei più giovani, verso i quali vi è molta diffidenza, ricambiata. Far tacere i giovani è una tentazione che è sempre esistita, ha detto il Papa.
  ll corso degli eventi sociali recenti va nel senso del salvare se stessi. È, ha insegnato il Papa, il grido che vuole cancellare la compassione, quel “patire con”, la compassione, che è la debolezza di Dio. È la voce, aggiunge,  di chi vuole difendere la propria posizione screditando specialmente chi non può difendersi.  Da giovani si potrebbe essere diversi? Non sempre è accaduto. Il vantaggio dei più giovani è che hanno meno compromessi dietro di sé nell’accostare la nostra fede. Quei compromessi consistono, come ha detto il Papa, nel manipolare la realtà e creare una versione a proprio vantaggio senza problemi a “incastrare” altri per cavarsela. Questa è una delle versioni sociali dell’idea di misericordia: il condono verso chi in società sta meglio e vuole anche essere riconosciuto come persona pia.  L’altra è quella delle compassione che salva il mondo, mettendo in questione tutto ciò che genera sofferenza sociale, e quindi venendo incontro ai suoi scarti sociali. Se si blinda il cuore, si raffredda la carità, non ci si salva. Una volta accettata la legge della giungla, per la quale prevalgono i più forti, si soccomberà, perché non lo si può rimanere per sempre.
  I giovani sono portati a mettere in discussione la società in cui debbono farsi largo e, in questo modo, ad essere fattore di rinnovamento. La società è, in genere,  dominata da chi sta meglio ed è restio a fare spazio agli altri, a parte la propria prole, come appunto avviene in natura, dominata dalla spietata legge del più forte.
  Ha detto il Papa:
 Ci sono molti modi per rendere i giovani silenziosi e invisibili. Molti modi di anestetizzarli e addormentarli perché non facciano “rumore”, perché non si facciano domande e non si mettano in discussione. “State zitti voi!”. Ci sono molti modi di farli stare tranquilli perché non si coinvolgano e i loro sogni perdano quota e diventino fantasticherie rasoterra, meschine, tristi.
  Un certo tipo di famiglia lo è stato storicamente. E’ servito per  far mettere la testa a posto  alla gente. In particolare ha costituito un inferno sociale per le donne.
  Spesso si ha una visione  giudiziaria  della misericordia. Ci sono delle regole e gente che le trasgredisce e poi chiede un condono. Non è questo il senso religioso. Ciò che nelle Scritture traduciamo con misericordia fa riferimento ad una compassione viscerale, al modo di quella materna. Questo è al centro della nostra esperienza religiosa, ce lo ricorda in particolare l’insegnamento di papa Francesco. Makàrioi oi elèmones òti  autòi eletèsontai  è l’espressione greca del Vangelo di Matteo che traduciamo con Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia (Mt 5,7). Qui  è chiaro che non siamo in campo giudiziario, non c’è un giudice e quelli che chiedono un condono: siamo tutti noi in ballo. Questo tipo di misericordia è il principio della riforma sociale secondo i valori di fede, quindi del nostro pensiero sociale e della dottrina sociale che lo sintetizza. Per affermarlo in società sembra che ci sia bisogno anche di gente che grida. Ha detto il Papa:
 In questa Domenica delle Palme, celebrando la Giornata Mondiale della Gioventù, ci fa bene ascoltare la risposta di Gesù ai farisei di ieri e di tutti i tempi, anche quelli di oggi: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19,40).
  È per questo che ha concluso:
Se il mondo tace e perde la gioia, vi domando: voi griderete?
Per favore, decidetevi prima che gridino le pietre.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

domenica 25 marzo 2018

CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE - 25 MARZO 2018- OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


da: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2018/documents/papa-francesco_20180325_omelia-palme.html

CELEBRAZIONE DELLA DOMENICA DELLE PALME
E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
XXXIII Giornata Mondiale della Gioventù
Domenica, 25 marzo 2018



  Gesù entra in Gerusalemme. La liturgia ci ha invitato a intervenire e partecipare alla gioia e alla festa del popolo che è capace di gridare e lodare il suo Signore; gioia che si appanna e lascia un sapore amaro e doloroso dopo aver finito di ascoltare il racconto della Passione. In questa celebrazione sembrano incrociarsi storie di gioia e di sofferenza, di errori e di successi che fanno parte del nostro vivere quotidiano come discepoli, perché riesce a mettere a nudo sentimenti e contraddizioni che oggi appartengono spesso anche a noi, uomini e donne di questo tempo: capaci di amare molto… e anche di odiare – e molto –; capaci di sacrifici valorosi e anche di saper “lavarcene le mani” al momento opportuno; capaci di fedeltà ma anche di grandi abbandoni e tradimenti.
  E si vede chiaramente in tutta la narrazione evangelica che la gioia suscitata da Gesù è per alcuni motivo di fastidio e di irritazione.
  Gesù entra in città circondato dalla sua gente, circondato da canti e grida chiassose. Possiamo immaginare che è la voce del figlio perdonato, quella del lebbroso guarito, o il belare della pecora smarrita che risuonano forti in questo ingresso, tutti insieme. E’ il canto del pubblicano e dell’impuro; è il grido di quello che viveva ai margini della città. E’ il grido di uomini e donne che lo hanno seguito perché hanno sperimentato la sua compassione davanti al loro dolore e alla loro miseria… E’ il canto e la gioia spontanea di tanti emarginati che, toccati da Gesù, possono gridare: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!». Come non acclamare Colui che aveva restituito loro la dignità e la speranza? E’ la gioia di tanti peccatori perdonati che hanno ritrovato fiducia e speranza. E questi gridano. Gioiscono. E’ la gioia.
  Questa gioia osannante risulta scomoda e diventa assurda e scandalosa per quelli che si considerano giusti e “fedeli” alla legge e ai precetti rituali.
 Gioia insopportabile per quanti hanno bloccato la sensibilità davanti al dolore, alla sofferenza e alla miseria. Ma tanti di questi pensano: “Guarda che popolo maleducato!”. Gioia intollerabile per quanti hanno perso la memoria e si sono dimenticati di tante opportunità ricevute. Com’è difficile comprendere la gioia e la festa della misericordia di Dio per chi cerca di giustificare sé stesso e sistemarsi! Com’è difficile poter condividere questa gioia per coloro che confidano solo nelle proprie forze e si sentono superiori agli altri!
  E così nasce il grido di colui a cui non trema la voce per urlare: “Crocifiggilo!”. Non è un grido spontaneo, ma il grido montato, costruito, che si forma con il disprezzo, con la calunnia, col provocare testimonianze false. E’ il grido che nasce nel passaggio dal fatto al resoconto, nasce dal resoconto. E’ la voce di chi manipola la realtà e crea una versione a proprio vantaggio e non ha problemi a “incastrare” altri per cavarsela. Questo è un falso resoconto. Il grido di chi non ha scrupoli a cercare i mezzi per rafforzare sé stesso e mettere a tacere le voci dissonanti. E’ il grido che nasce dal “truccare” la realtà e dipingerla in maniera tale che finisce per sfigurare il volto di Gesù e lo fa diventare un “malfattore”. E’ la voce di chi vuole difendere la propria posizione screditando specialmente chi non può difendersi. E’ il grido fabbricato dagli “intrighi” dell’autosufficienza, dell’orgoglio e della superbia che proclama senza problemi: “Crocifiggilo, crocifiggilo!”.
  E così alla fine si fa tacere la festa del popolo, si demolisce la speranza, si uccidono i sogni, si sopprime la gioia; così alla fine si blinda il cuore, si raffredda la carità. E’ il grido del “salva te stesso” che vuole addormentare la solidarietà, spegnere gli ideali, rendere insensibile lo sguardo… Il grido che vuole cancellare la compassione, quel “patire con”, la compassione, che è la debolezza di Dio.
  Di fronte a tutte queste voci urlate, il miglior antidoto è guardare la croce di Cristo e lasciarci interpellare dal suo ultimo grido. Cristo è morto gridando il suo amore per ognuno di noi: per giovani e anziani, santi e peccatori, amore per quelli del suo tempo e per quelli del nostro tempo. Sulla sua croce siamo stati salvati affinché nessuno spenga la gioia del vangelo; perché nessuno, nella situazione in cui si trova, resti lontano dallo sguardo misericordioso del Padre. Guardare la croce significa lasciarsi interpellare nelle nostre priorità, scelte e azioni. Significa lasciar porre in discussione la nostra sensibilità verso chi sta passando o vivendo un momento di difficoltà. Fratelli e sorelle, che cosa vede il nostro cuore? Gesù continua a essere motivo di gioia e lode nel nostro cuore oppure ci vergogniamo delle sue priorità verso i peccatori, gli ultimi, i dimenticati?
  E a voi, cari giovani, la gioia che Gesù suscita in voi è per alcuni motivo di fastidio e anche di irritazione, perché un giovane gioioso è difficile da manipolare. Un giovane gioioso è difficile da manipolare!
  Ma esiste in questo giorno la possibilità di un terzo grido: «Alcuni farisei tra la folla gli dissero: “Maestro, rimprovera i tuoi discepoli”; ed Egli rispose: “Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”» (Lc 19,39-40).
Far tacere i giovani è una tentazione che è sempre esistita. Gli stessi farisei se la prendono con Gesù e gli chiedono di calmarli e farli stare zitti.
   Ci sono molti modi per rendere i giovani silenziosi e invisibili. Molti modi di anestetizzarli e addormentarli perché non facciano “rumore”, perché non si facciano domande e non si mettano in discussione. “State zitti voi!”. Ci sono molti modi di farli stare tranquilli perché non si coinvolgano e i loro sogni perdano quota e diventino fantasticherie rasoterra, meschine, tristi.
  In questa Domenica delle Palme, celebrando la Giornata Mondiale della Gioventù, ci fa bene ascoltare la risposta di Gesù ai farisei di ieri e di tutti i tempi, anche quelli di oggi: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» (Lc 19,40).
  Cari giovani, sta a voi la decisione di gridare, sta a voi decidervi per l’Osanna della domenica così da non cadere nel “crocifiggilo!” del venerdì… E sta a voi non restare zitti. Se gli altri tacciono, se noi anziani e responsabili – tante volte corrotti – stiamo zitti, se il mondo tace e perde la gioia, vi domando: voi griderete?
Per favore, decidetevi prima che gridino le pietre.

sabato 24 marzo 2018

La teologia di papa Francesco - Il sogno di una Chiesa evangelica 1


La teologia di papa Francesco 
Il sogno di una Chiesa evangelica 1



  Nei giorni scorsi sono scoppiate aspre polemiche intorno alla presentazione di una collana di libri divulgativi pubblicati dalla Libreria Editrice Vaticana sulla teologia di papa Francesco, con il titolo  La teologia di papa Francesco. Era stata resa pubblica una lettera del Papa emerito Joseph Ratzinger, eminente teologo, nella quale la si apprezzava, sostenendo che era da stolti dire che Papa Francesco fosse privo di formazione teologica o filosofica. Proseguendo, parlava dei volumi della collana come di libretti  e conteneva riserve verso uno degli autori, con il quale il Ratzinger era stato in passato in disaccordo su questioni teologiche. Il Papa emerito dichiarava di non aver potuto ancora leggere i testi, per le sue condizioni di salute e per precedenti impegni. In ciò si è voluta vedere una presa di distanza dalle posizioni teologiche di Papa Francesco.
  In effetti si tratta proprio di libretti, nel senso di volumi di piccolo formato, tascabili.  Una persona se li puo’ portare con sé durante il giorno e leggerli nei ritagli di tempo, ad esempio in metropolitana.
  Parlano della teologia di papa Francesco, ma non sono libri di teologia. Non sono rivolti agli studiosi di teologia, ma ad un pubblico colto di non specialisti. Possono essere compresi da chi ha fatto le superiori o, comunque, si sente in grado di leggere tutte le parti di un quotidiano.
 Che cos’è la teologia?
  Può essere intesa come disciplina scientifica: la riflessione con metodo rigoroso, quindi sistematico e conseguente alla premesse, sulla fede della Chiesa. Si è riconosciuti come teologi dopo aver seguito un percorso di formazione specifico ed aver dimostrato di saper ragionare con quel metodo. Un teologo deve innanzi tutto essere istruito sulle Scritture, conoscere tutto il pensiero di fede espresso sul settore specialistico a cui si è dedicato ed essere sufficientemente informato su pensiero espresso negli altri settori. Questo modo di procedere non è diverso da quello di altri campi della scienza.
 Può essere però essere intesa anche come il complesso delle convinzioni di fede di una persona o di un determinato gruppo di fedeli. Allora esprime il modo in cui quella persona o quel gruppo dicono e vivono la loro fede religiosa. Ogni credente ha quindi una propria teologia. Quando si parla di teologia di un  Papa  è questo il senso che si utilizza.
  Nel presentare la collana, il teologo Roberto Repole ha ricordato che i Papi in maggioranza non sono stati teologi di professione, vale a dire scienziati della teologia. Il caso del Ratzinger è un’eccezione. Tuttavia essi, come tutti i preti, hanno avuto una formazione teologica approfondita. Hanno saputo esprimere la loro fede in termini teologici, che troviamo utilizzati nei loro documenti ufficiali, ad esempio nelle encicliche, che contengono leggi per la Chiesa. I Papi si avvalgono della collaborazione di teologi di professione, come di altri scienziati di varie discipline, ma hanno una loro teologia, nel senso di concezioni e progetti di fede.
  Anche il Ratzinger, durante il suo ministero pontificio, ha scritto libri divulgativi in cui ha parlato anche di teologia ai non teologi di professione. Si tratta dei testi su Gesù di Nazareth, che io ho letto e che consiglio a tutti di leggere. Contengono, tra l’altro, molta della teologia di Ratzinger come papa Benedetto 16°, intesa come convinzioni e programmi riguardanti la fede e la Chiesa, non come studio scientifico su certi temi.
  C’è una continuità tra la teologia di papa Francesco e quella di papa Benedetto 16°, come è stato sostenuto e alcuni dubitano? Come potrebbe non esservi. Per tanto tempo hanno collaborato negli  stessi ambienti di capi religiosi: il collegio cardinalizio e il sinodo dei vescovi. Sono quasi coetanei. Papa Francesco ha studiato anche in Germania: è probabile che abbia accostato anche testi di Ratzinger come teologo. Poi ha sicuramente studiato quelli firmati dal Ratzinger come Papa, come tutti noi. Lo scienziato di teologia Ratzinger e  il Ratzinger come Papa hanno sicuramente influito sulla teologia di Papa Francesco. Ci sono, però, in quest’ultima elementi di novità.
  Alcuni sono portati ad apprezzare le novità, altri le temono. Conoscendo meglio la teologia di papa Francesco si può arrivare a capire che i timori sono ingiustificati. La novità, infatti,  è l’accentuazione e lo sviluppo del tema del Vangelo della misericordia, come fonte e criterio di riforma ecclesiale.
  Inizio da oggi a proporre una sintesi dei volumi della collana, a partire da quello sull’ecclesiologia, vale a dire su come il Papa pensa la Chiesa, le sue prospettive, le riforme necessarie. Questo per invogliare ad approfondire mediante la lettura integrale dei testi.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Roberto Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa Francesco, Libreria editrice Vaticana, 2017, €12.00
Sintesi
nota: il testo è tratto dal volume. Gli elementi di raccordo tra parentesi quadre sono inseriti da chi ha estratto la sintesi.
Sintesi di Mario Ardigò


Prefazione alla collana

 Il pontificato di Francesco [si presenta] all’insegno di una novità di stile. In questi anni, l’immagine del papato ne [è] uscita decisamente trasformata. Ciò  - com’era prevedibile- ha ingenerato pareri anche molto discordanti tra loro. Alcuni [sono] giunti a mettere in forse l’esistenza stessa di una teologia nell’insegnamento di Francesco.
  Bergoglio ha alle spalle, soprattutto e primariamente, la lunga e radicale esperienza del religioso e del pastore. Ciò non significa, però, che il suo magistero sia privo di teologia.
  Avvalendosi della competenza e dello studio rigoroso di teologi provenienti da diversi contesti e dalla serietà ormai assodata, si  è inteso ricercare quale sia il pensiero teologico che supporta l’insegnamento del Papa. Il risultato è racchiuso negli 11 volumi che vengono a formare la collana dal titolo semplice e immediato: “La teologia di papa Francesco”.
  L’intento non è di tipo apologetico [=di difesa degli orientamenti del Papa], [ma] di cercare di vedere e di aiutare a vedere quale sia il pensiero teologico su cui si basa Francesco.
 Nell’insegnamento di Francesco  appare ormai come un punto di non ritorno ciò che tanto  la teologia  recente quanto il magistero conciliare [=del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)] hanno insegnato:  che la dottrina, cioè, non è né può essere qualcosa di estraneo rispetto alla cosiddetta pastorale. La teologia non potrà mai ridursi ad un asettico esercizio da tavolino, sganciato dalla vita del popolo di Dio.

Prologo. Per custodire e far crescere un sogno

    Ai suoi primordi la Chiesa ha potuto “prendere il largo” grazie a un sogno. In una visione, confina con un sogno, Pietro comprende come la Chiesa non possa essere circoscritta al gruppo dei giudeo-cristiani, ma sia invece destinata a tutti (leggi At 10). Alla comunità cristiana primitiva diverrà sempre più evidente che anche i pagani dovranno essere accolti nell’unità della Chiesa. La Chiesa non [è] una conventicola o una setta destinata ad alcuni, ma [rappresenta], al contrario, luogo di riconciliazione dell’umanità intera. [Fu] una conversione dello stesso Pietro e della comunità cristiana delle origini. [Nella] sua bimillenaria storia, la Chiesa ha sempre avuto bisogno di cristiane e di cristiani capaci di riattivare quello stesso sogno.
  [Nell’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium,  il Papa ha scritto:] “Sogno una Chiesa missionaria capace di trasformare ogni cosa”.  [E nel 2015, all’incontro con i rappresentanti del 5° Convegno della Chiesa italiana, ha detto:] “Mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà”.
  Il sogno di papa Francesco è in fondo molto semplice e proprio per questo piuttosto spiazzante: si potrebbe in modo immediato affermare che si tratti del sogno di una Chiesa evangelica.  Di una Chiesa capace di confrontare costantemente se stessa, la sua vita, le sue scelte e le sue strutture con la freschezza del Vangelo. L’aggettivo “inquieta” è tutt’altro che peregrino al fine di esprimerne la costituzione. Si tratta dell’inquietudine di chi ha un’ “identità aperta” e “relazionale” in diverse direzioni; è l’inquietudine che, in definitiva, deriva alla Chiesa dal suo essere al servizio [del] Signore del cosmo e di tutti gli uomini.
  [Nel magistero di papa Francesco], ci si trova alle prese con una nuova recezione dell’insegnamento ecclesiologico [=sulla Chiesa] espresso dal Vaticano 2° [=il Concilio Vaticano 2° (1962-1965].
  Francesco è il primo papa [dopo il Concilio Vaticano 2°] che non ha preso parte ai lavori conciliari. Egli è, però, pienamente figlio del Concilio e del rinnovamento ecclesiale che da esso ha preso l’avvio.  Ciò non significa che le prospettive offerte da Francesco siano prive di una certa originalità. Esse portano l’eredità di quella particolare versione della teologia latino-americana che va sotto il nome di “teologia del popolo (di cui uno dei primi e più importanti esponenti fu il pensatore italo-argentino Luciano Gera, 1924-2012).
  Con Francesco la recezione del Concilio entra in una fase nuova. Il fatto che ci sia un papa proveniente dall’America Latina, che possa far tesoro  dell’esperienza d quella Chiesa oltre che dell’elaborazione teologica lì sviluppatasi, è giù un primo frutto del Concilio se è vero che uno degli aspetti di maggiore novità del Vaticano 2° consiste in una chiesa divenuta mondiale. Una chiara prospettiva ecclesiologica  è rinvenibile nel suo insegnamento.

Capitolo 1°
Il primato del Vangelo

   Il modo con cui Francesco afferma che il centro della Chiesa non è la Chiesa è di richiamare  che essa deve se stessa al Vangelo che è, etimologicamente [=la parola viene dal greco antico e significa buona notizia], fonte di gioia per gli uomini.
  Non esiste la Chiesa se non come frutto del Vangelo. La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia.  L’affermazione della resurrezione di Cristo non è l’asserzione di un evento passato, ma del fatto che Egli continua ad essere vivo nello Spirito. Incontrare il Risorto significa, per i cristiani, una relazione viva che perdura.
  Una novità di accento con cui Francesco esprime [il] primato di Dio sulla Chiesa è data dalla centralità che nel suo insegnamento esprime il “Vangelo della misericordia”.  Per Francesco, la misericordia non è un aspetto accessorio: essa esprime qualcosa di fondamentale del volto di Dio che si è rivelato compiutamente in Cristo. Bergoglio, rifacendosi a Beda il Venerabile [monaco inglese dell’8° secolo], scelse come motto episcopale Miserando atque eligendo («Mentre ha guardato me con gli occhi della misericordia, egli mi ha scelto»). Con la misericordia si esprime qualcosa di centrale del Vangelo riassumibile in Cristo. Francesco asserisce infatti che, a partire dall’atteggiamento e dalla prassi di Gesù in quanto rivelativa di Dio, si può affermare che la misericordia è la carte d’identità del nostro Dio. Entrare in contatto con la Persona di Cristo, in cui è sintetizzabile il Vangelo, significa essere messi in relazione con il Dio che ha cuore per i miseri, specialmente con quanto sono afflitti da quella singolare miseria che è il peccato.
  La misericordia è per il Papa il nucleo del Vangelo e della nostra fede, la forza che tutto vince, che riempie il cuore di amore e che consola con il perdono.
 L’ultimo Concilio, riconsiderando lo “statuto” della verità cristiana, ha permesso di evidenziare come si tratti di una verità che coinvolge l’uomo: non agisce dal di fuori. [Questa convinzione] nel magistero di Francesco trova un nuovo sviluppo. Il Vangelo non [è] riducibile a “dottrina”. Dio [incontra] gli uomini nella diversità delle loro culture e li afferra nella singolarità della loro vita e della loro situazione esistenziale; l’incontro [implica] il libero assenso dell’uomo. Il Vangelo consiste nell’amore misericordioso di Dio, non è pensabile ridurlo ad “idea astratta” o a “dottrina”. Le formule [della dottrina] non possono rappresentare un pretesto per oscurare la verità del Vangelo della misericordia.  [Esse] sono vere nella loro finitudine e nel loro essere sempre necessariamente “figlie” di un determinato contesto. Sono perciò sempre definitive  e provvisorie  al tempo stesso. Non possono costituire un divieto allo sforzo di esprimere in altri modi quella medesima verità. [Altrimenti] si potrebbe arrivare alla situazione paradossale di sentire un linguaggio formalmente ortodosso che non indirizza al vero Vangelo di Cristo.
  «La predica cristiana - [sostiene il Papa] - trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per sapere che cosa dire, sia per trovare il modo appropriato per dirlo».
  [Ad esempio], esiste un inequivocabile Vangelo della famiglia. Esso  è, però, tale, quando raggiunge le famiglie nelle loro concrete situazioni esistenziali. [È], per questo, indispensabile un costante discernimento e accompagnamento, affinché ciascuno sia aiutato a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale. Nessuno può essere condannato per sempre - sostiene il Papa - perché questo non è la logica del Vangelo, riferendosi a tutti, in qualunque situazione si trovino.
  La misericordia è una meta da raggiungere e che richiede impegno e sacrificio, [Il Papa fa] una netta distinzione tra peccatori e  corrotti. Mentre i primi si sentono costantemente  bisognosi della Misericordia Divina e sanno di doversi percepire in cammino, in stato di costante conversione, i secondi si auto-giustificano ed arrivano a non avvertire nemmeno più il senso del peccato. La misericordia, pur essendo gratuita, va a buon fine laddove incontra degli uomini che, nella loro libertà, si lasciano toccare da Cristo e si convertono.
 Soltanto una Chies realmente evangelica può consentire al Vangelo di continuare la sua strada nel mondo. [E] il Vangelo della misericordia può continuare a toccare le donne e gli uomini solo attraverso il servizio della Chiesa. In quest’orizzonte si deve inquadrare la preoccupazione di Francesco per una riforma della Chiesa, per una Chiesa povera per i poveri, per una Chiesa misericordiosa. [La riforma] non si esaurisce nell’ennesimo paino per cambiare le strutture.  Solo una Chiesa povera e indirizzata  anzitutto ai poveri, agli emarginati, agli esclusi, agli scartati dalla società può farsi, infatti, trasparenza di quel Cristo  nel quale si condensa tutto il Vangelo di Dio. [Ciò era stato] già messo in evidenza nel fondamentale paragrafo 3 [ del n.8 della Costituzione dogmatica Luce per le genti - Lumen gentium]:

Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo « che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la condizione di schiavo » (Fil 2,6-7) e per noi « da ricco che era si fece povero » (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre « ad annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore contrito » (Lc 4,18), « a cercare e salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre Cristo, « santo, innocente, immacolato » (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa « prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio » , annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce.

 Non è certo casuale che il tema venga riproposto da un papa che proviene dall’America Latina e da una Chiesa che in questi decenni lo ha recepito e sviluppato.
 E’ per mezzo di una Chiesa misericordiosa che il Vangelo della misericordia può, infatti, raggiungere l’umanità di oggi, ridivenendo udibile e “sperimentabile” per le donne in carne ed ossa e dal di dentro delle loro situazioni di miseria e di peccato,
 Dice il Papa: “ Sì io credo che questo sia il tempo della misericordia. La Chiesa mostra il suo volto materno all’umanità ferita”.  [È] una delle metafore preferite da Francesco, per parlare della Chiesa: quella materna. Francesco ha espressamente riconosciuto  un debito teologico nei confronti del suo confratello gesuita Henri de Lubac [teologo francese 1896-1991] (in particolare per la sua opera Méditation sur l’Èglise - Meditazione sulla Chiesa9, per il quale tale immagine ha avuto un peso considerevole. L’immagine materna  è utile per dire come sia per mezzo della Chiesa che si viene generati, con il battesimo, alla via in Cristo; ed è solo per suo tramite che si viene raggiunti dal Vangelo.  Dal momento, poi, che il Vangelo è quello di un Dio che ha cuore per le miserie dell’umanità, tale maternità si esprime anche nell’agire misericordioso della Chiesa: dove per Chiesa si deve intendere la totalità dei cristiani.
 È attraverso i sacramenti, l’annuncio del Vangelo, l’esistenza stessa di tutti i cristiani, la loro compassione e il loro chinarsi sulle ferite dell’umanità, che il Vangelo continua ad essere udibile e vivo nel mondo. È, dunque, la maternità della Chiesa che consente di rimettere al centro la questione di Dio; non un “Dio qualunque”, ma il Dio che ha a cuore e si prende cura di un’umanità misera e peccatrica.
  Si tratta di una realtà di cui, nonostante le apparenze, l’umanità contemporanea ha, secondo il Papa, una sete infinita.